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Nota a Cass. Civ., Sez. I, 12 ottobre 2023, n. 28500.

di Alessio Buontempo

Praticante Avvocato

La controversia nasce dall’ottenimento di un decreto ingiuntivo, a favore di Banca MPS, con cui si ingiungeva ad una società, quale debitrice principale, e ad una persona fisica, quale fideiussore, di pagare alla ricorrente la somma di euro 132.351,52, quale saldo passivo del conto corrente intrattenuto dalla debitrice principale con la banca ricorrente.

Gli intimati proponevano opposizione a decreto ingiuntivo al fine di ottenere il rigetto. A seguito dell’esperimento di c.t.u. il Tribunale di Torino rigettava l’opposizione e condannava gli opponenti. Successivamente, il fideiussore proponeva appello, ottenendo anche in tal sede il rigetto del gravame. La Corte d’Appello di Torino evidenziava, inter alia, circa l’addotta nullità della fideiussione per violazione dell’art. 2, 2° co., lett. a), della l. n. 287/1990, siccome la garanzia era stata “stipulata su modulo ABI contenente clausole illegittime, perché frutto di un’intesa tra banche limitativa della concorrenza ai danni dei consumatori”, che la questione era tardiva, giacché introdotta con la conclusionale d’appello. Evidenziava altresì, la corte, che ai fini della prova del credito era sufficiente nella fase monitoria l’allegazione del saldo di estratto conto ex art. 50 t.u.b., nella specie prodotto unitamente al contratto di conto corrente ed alla fideiussione. In conclusione, rappresentava circa l’addotta nullità del contratto di conto corrente per difetto di sottoscrizione dell’istituto di credito, che, giusta la pronuncia – ancorché relativa ai contratti di intermediazione finanziaria – n. 898/2018 delle sezioni unite della S.C., doveva reputarsi sufficiente la sola sottoscrizione del cliente ai fini dell’assolvimento dell’onere della forma scritta postulato dall’art. 117 del d.lgs. n. 385/1993.

Avverso la pronuncia d’Appello proponeva ricorso in Cassazione con cinque motivi.

Con i primo motivo il ricorrente ha denunciato ai sensi dell’art. 360, 1° co., n. 3, c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art. 1421 c.c..; l’omesso esame circa fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. La Corte ritiene infondato il primo motivo, ritenendo seguire un orientamento della stessa S.C. in sezioni unite, ovvero l’insegnamento a tenor del quale i contratti di fideiussione “a valle” di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, 2° co., lett. a), della l. n. 287 del 1990 e 101 del T.F.U.E., sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, 3° co., della legge citata e dell’art. 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducono quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata – perché restrittive, in concreto, della libera concorrenza – salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti. Sicché, evidentemente, si svela in toto ingiustificato l’assunto del ricorrente secondo cui “la Corte [d’appello] non avrebbe potuto far altro che dichiarare la fideiussione affetta da nullità integrale e non solo delle singole clausole dichiarate illegittime dalla Banca d’Italia”. E in secondo luogo, che il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto, deve rilevarne di ufficio la sua nullità solo parziale e, qualora le parti, all’esito di tale indicazione officiosa, omettano un’espressa istanza di accertamento in tal senso, deve rigettare l’originaria pretesa non potendo inammissibilmente sovrapporsi alla loro valutazione ed alle loro determinazioni espresse nel processo.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360, 1° co., n. 3, c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art. 50 t.u.b., la Corte respinge anche tale secondo motivo sull’assunto che in tema di prova del credito fornita da un istituto bancario, va distinto l’estratto di saldaconto all’ordinario estratto conto, che è funzionale a certificare le movimentazioni debitorie e creditorie intervenute dall’ultimo saldo, con le condizioni attive e passive praticate dalla banca; mentre il “saldaconto” riveste efficacia probatoria nel solo procedimento per decreto ingiuntivo eventualmente instaurato dall’istituto, l’ “estratto conto”, trascorso il previsto periodo di tempo dalla sua comunicazione al correntista, assume carattere di incontestabilità ed è, conseguentemente, idoneo a fungere da prova anche nel successivo giudizio contenzioso instaurato dal cliente. In tal guisa il ricorrente non ha ragione per denunciare l’ “error in iudicando” correlato alla previsione dell’art. 50 t.u.b. e dunque per assumere che “il D.I. non avrebbe potuto essere emesso e doveva pertanto essere revocato”.

Con il terzo motivo il ricorrente ha denunciato ai sensi dell’art. 360, 1° co., n. 3, c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art. 117 t.u.b., respingendo anche tale terzo motivo, la Corte, reitera l’insegnamento delle sezioni unite secondo cui in tema d’intermediazione finanziaria, il requisito della forma scritta del contratto-quadro, posto a pena di nullità (azionabile dal solo cliente) dall’art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, va inteso non in senso strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione dell’investitore assunta dalla norma, sicché tale requisito deve ritenersi rispettato ove il contratto sia redatto per iscritto e ne sia consegnata una copia al cliente, ed è sufficiente che vi sia la sottoscrizione di quest’ultimo, e non anche quella dell’intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti.

Con il quarto motivo – in forma duplice articolato – il ricorrente ha denunciato ai sensi dell’art. 360, 1° co., n. 3, c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 1363 e ss. c.c.; l’omesso esame circa fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. La S.C. rigetta il quarto motivo premettendo che, la corte d’appello ha evidenziato che l’assunto dell’appellante, circa l’esistenza di un contratto di apertura di credito intercorso tra le parti, non prodotto in giudizio e contenente condizioni diverse e più favorevoli alla s.r.l. correntista, era rimasto privo di qualsivoglia riscontro probatorio. Evidenziando, dunque, che il contratto di riferimento era quello di conto corrente siglato nel 2017, tale da reputarsi pienamente valido.

Il primo profilo di censura – del quarto mezzo – veicola senza dubbio una questione ermeneutica con riferimento all’affermazione della corte distrettuale secondo cui “nel contratto concluso nel 2007 si prevede pure che le aperture di credito eventualmente appoggiate sul conto corrente avrebbero seguito le condizioni in esso pattuite”. La S.C. si rimette all’insegnamento secondo cui l’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione per violazione delle regole ermeneutiche ai sensi del n. 3 del 1° co. dell’art. 360 c.p.c. e per omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti ai sensi del n. 5 del 1° co. dell’art. 360 c.p.c., altresì, l’insegnamento secondo cui né la censura ex n. 3 né la censura ex n. 5 del 1° co. dell’art. 360 c.p.c. possono risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione; d’altronde, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra.

Così, nel solco delle enunciate indicazioni giurisprudenziali, secondo la S.C. l’interpretazione patrocinata dalla corte territoriale è immune da vizi suscettibili di assumer valenza in relazione alla previsione del (novello) n. 5 del 1° co. dell’art. 360 c.p.c. ed è assolutamente ineccepibile sul piano della correttezza giuridica, ovvero non diverge da alcun criterio legale di ermeneutica contrattuale.

Il secondo profilo del quarto mezzo recava la censura di “omesso esame”. La corte evidenzia che il giudizio di appello ha avuto inizio nel corso del 2017. Sicché il secondo dictum ha integralmente confermato il primo dictum. Conseguentemente si applica ratione temporis nella specie l’art. 348 ter, 5° co., c.p.c., che esclude che possa essere impugnata con ricorso per cassazione ex art. 360, 1° co., n. 5, c.p.c. la sentenza di appello “che conferma la decisione di primo grado”.

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360, 1° co., n. 5, c.p.c. l’omesso esame circa fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, deducendo che, contrariamente all’assunto della Corte di Torino, ha in primo grado ed in appello contestato l’affermazione del tribunale, di cui all’ordinanza in corso di causa, secondo cui l’eccezione di mancato esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione era stata sollevata tardivamente.

La Corte respinge il quinto ed ultimo motivo di ricorso, premettendo che in ordine all’addotta nullità della sentenza di primo grado per omessa pronuncia sull’eccezione di mancato esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione la corte d’appello ha precisato che, in primo luogo, con ordinanza del 2.12.2015 il tribunale opinava per la tardività dell’eccezione, giacché sollevata dopo la prima udienza e dopo la concessione all’opposta ingiunzione della provvisoria esecuzione. In secondo luogo, che siffatti rilievi, da intendersi ribaditi dal tribunale con la gravata sentenza, non erano stati oggetto, nell’atto d’appello, di alcun tipo di contestazione. La Corte sottolinea che il ricorrente ha, sì, dedotto di aver ritualmente e specificamente contestato in prime cure ed in seconde cure la ritenuta tardività dell’eccezione di omesso esperimento del tentativo di mediazione obbligatoria. E tuttavia – il ricorrente – non ha, in ossequio al canone di “autosufficienza”, provveduto a riprodurre più o meno testualmente sia il motivo di appello, con cui avrebbe censurato il primo dictum, nella parte in cui era stata reputata tardiva l’eccezione correlata al mancato esperimento della mediazione obbligatoria, sia l’atto processuale di prime cure, con cui avrebbe tempestivamente eccepito l’omesso esperimento del tentativo di mediazione obbligatoria. Secondo la Corte è fuor di dubbio, invero, che, qualora venga denunciato un “error in procedendo”, la Corte di legittimità diviene anche giudice del “fatto processuale” ed è investita del potere di esaminare direttamente gli atti di causa, nondimeno il ricorrente ben avrebbe dovuto indicare gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui ha invocato il riesame.

La Corte, sulla scorta di quanto affermato, ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al rimborso alla controricorrente delle spese.

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