Nota a Cass. Civ., Sez. I, 8 agosto 2023, n. 24094
- Il fatto e le ragioni della ricorrente.
Con ordinanza pubblicata il 08/08/2023, la prima Sezione della Corte di cassazione, nella persona del Presidente ed Estensore dott. Guido Mercolino, fornisce una ragionata, lineare e (a parer di chi scrive) condivisibile soluzione ad un quesito di natura processuale – che interseca giocoforza anche il diritto sostanziale –, vale a dire se sia o non sia improcedibile l’istanza di fallimento dell’unico creditore (nella specie, una società a responsabilità limitata) che, per via di una transazione (pur anteriore alla declaratoria fallimentare, ma) non accompagnata dalla prova del pagamento, desista dalla stessa.
Il provvedimento trae origine da un ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello (nella specie, Salerno) emessa ex art. 18 R.D. 267/1642 (meglio noto come legge fallimentare), che aveva escluso l’improcedibilità dell’istanza per desistenza dell’istante, unica creditrice costituita.
Giova premettere che il ritiro del ricorso per fallimento (cd. atto di desistenza) costituisce quell’atto con cui il creditore abdica al proprio ius postulandi volto all’esame nel merito della domanda di fallimento. Altrettanto meritevole di precisazione è la conclusione per cui la desistenza non si presenta come l’atto eguale e contrario alla istanza di fallimento, ma più semplicemente come l’atto avente un contenuto meramente processuale di rinuncia alla decisione.
Ora, in occasione del ricorso, come primo motivo – ed è su questo che l’attenzione merita di essere concentrata –, la S.r.l. aveva addotto che la desistenza de qua dovesse essere qualificata come rinuncia agli atti del giudizio prefallimentare e, in quanto tale, incidente non già sulla legitimatio ad causam (tesi invero condivisa dai giudici di merito e, come si leggerà nel prosieguo, anche da quelli di legittimità), bensì sull’interesse ad agire dell’istante, inteso come condizione dell’azione. Il venir meno del predetto interesse, sempre a detta della ricorrente e giusta la sovrapposizione della rinuncia agli atti prefallimentari a quella del codice di procedura civile (art. 306 c.p.c.), ben può essere segnalato dal creditore indipendentemente da qualsiasi riferimento alla situazione dedotta.
Ne deriva, per l’effetto, che la desistenza potrebbe esser fatta valere anche in sede di reclamo (di cui all’art. 18 succitato), onde rimuovere, per cessazione della materia del contendere, la decisione impugnata. Da qui il nodo problematico.
- Il punto di vista dei giudici del reclamo e quello della Cassazione.
Orbene, in linea con la giurisprudenza di legittimità (pure richiamata nel provvedimento), la questione processuale viene risolta dalla Corte territoriale facendo ricorso alla distinzione tra desistenza dovuta al pagamento del credito e desistenza non accompagnata dall’estinzione dell’obbligazione (cfr. pag. 4 dell’ordinanza): nel dettaglio, la prima comporta la perdita della legittimazione del creditore istante al momento della dichiarazione di fallimento, ove risulti che il pagamento sia stato effettuato in epoca antecedente con atto avente data certa; per converso, la seconda, in quanto atto di natura meramente processuale rivolto al giudice alla stessa stregua della domanda giudiziale originaria e di cui questi deve tener conto ai fini dell’eventuale decisum, non può, se prodotta soltanto in sede di reclamo, comportare la revoca della sentenza di fallimento.
Orbene, la Cassazione di fatto condivide, nella sostanza, il punto di vista della sentenza impugnata, così consolidando l’indirizzo giurisprudenziale degli ultimi anni. All’uopo, infatti, la S.C. punta l’attenzione sulla peculiarità del giudizio fallimentare, sugli interessi in esso coinvolti e sui ruoli giocati dalle varie parti processuali: si legge, infatti, a pag. 6, che la portata propria della sentenza di fallimento [che], una volta pronunciata, produce effetti erga omnes, la persistenza dei quali non può essere rimessa alla mera volontà del creditore istante (o comunque alle vicende del suo rapporto con il fallito), essendo tra l’altro precisato che l’istanza di fallimento ha, sì, una funzione propulsiva della procedura fallimentare, ma tale funzione si esaurisce con la dichiarazione di fallimento (oggi liquidazione giudiziale).
In altre parole, l’istanza di fallimento non è una condizione dell’azione. Di essa il creditore non può liberamente disporre, come avviene nell’ipotesi processuale del codice di procedura civile. Precipitato di detto assunto è che, in sede di reclamo fallimentare, non possono assumere rilievo i fatti sopravvenuti alla decisione di fallimento, bensì esclusivamente quelli che, esistenti al momento della proposizione dell’istanza, potevano condurre ad un rigetto della stessa per carenza dei presupposti.
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