La clinica diventa l’atipico luogo di rifugio di tutti coloro che, in vario modo, hanno, loro malgrado, incrociato le scorribande del Diavolo, in persona, e dei suoi aiutanti, intenti a smascherare, in una sceneggiatura fatta di prestidigitazione, illusionismo, dialettica, tutte le incoerenze e le storture sottese alle normali dinamiche sociali: un varieté di ostentazione, classismo, libertà di espressione imbrigliata, meschinità trasversale. D’altronde, il Diavolo Woland adotta la magia al contrario, perché il trucco non è inganno, ma, nel più tranciante dei contrari, disvelamento, di quella realtà, da tutti sottaciuta. In un grande e diffuso gioco di prestigio, che coinvolge tutti i personaggi variamente presenti nella trama, da quelli più centrali alle comparse, è il Diavolo a portare realizzazione di quell’intimo desiderio di libertà e consolazione; a tutti, senza distinzione, perché nessuno è migliore degli altri. E, allora, in questo mondo all’improvviso posto al contrario è il Diavolo a impersonare il giustiziere, a gratificare i buoni, a impaurire i cattivi, che, tuttavia, senza redimersi, tali, dopo il momentaneo spavento, torneranno. È Woland a risarcire, paradossalmente, quello che la società ha tolto e, in una ardita rivisitazione della dottrina cristiana, saranno beati gli afflitti, perché saranno consolati, non dal bene, ma da un male, che può agire anche per fare del bene. Senza commistioni.