4 min read
«Non potrebbe esserci il bene senza il male; anzi, alla fine, è proprio il male, delle volte, a sopperire, redento, alla mancanza del bene.»

Il senso, uno dei sensi più profondi del romanzo è idiomaticamente rappresentato da un dialogo, invero sul finale della narrazione, tra il Diavolo, Woland, e il discepolo di Jeshua Ha-Nozri, Levi Matteo. Che cosa avrebbe fatto il bene, se non fosse esistito il male, e, al contempo, che aspetto avrebbe la terra, se da lei scomparissero le ombre? Sono le cose e le persone che generano le ombre, sì come anche gli alberi e tutti gli altri esseri viventi; sarebbe folleggiare voler scorticare l’intera sfera terrestre, strappandole di dosso tutto ciò che è variamente vivo, per fantasticare di goderne la nuda luce. Ed è questa la chiave di lettura, dispiegata in una sapiente alternanza di piani narrativi, di tutto il romanzo: un realismo tagliente, forse sofisticato, che non scade mai in un banale pessimismo, perché attorniato da elementi, ben congeniati di comicità.

Alla fantasmagoria della venuta del Diavolo e del suo codazzo di improbabili assistenti (che incarnano tutti i principali stereotipi caratteriali), che piomba in una Mosca irregimentata, per scompaginarne la normalità ovattata dal pregiudizio, dal compromesso, dal privilegio e, soprattutto, dal conformismo, sbaragliando un già precario concetto di “normalità”, si oppone la storicità, quella molto più remota, del quinto procuratore della Giudice, il cavaliere Ponzio Pilato, che è, a sua volta e a sua insaputa, ponte con l’ultima, caratterizzante vocazione del romanzo, il romanticismo. Quello del Maestro, anonimo scrittore e drammaturgo, e Margherita, che, invece, ha anche un cognome, Nikolaevna, e una storia personale definita: quella di donna sposata con un marito perfetto, giovane, possidente e in carriera, ma che è innamorata, nel più classico degli intrighi, di un altro uomo, del Maestro, follemente. Follia che contagia anche l’amato, fino a estraniarlo sì tanto da una realtà bieca, non compiacente, carica di risentimento e bigottismo sociale, e condurlo in clinica psichiatrica.  

La clinica diventa l’atipico luogo di rifugio di tutti coloro che, in vario modo, hanno, loro malgrado, incrociato le scorribande del Diavolo, in persona, e dei suoi aiutanti, intenti a smascherare, in una sceneggiatura fatta di prestidigitazione, illusionismo, dialettica, tutte le incoerenze e le storture sottese alle normali dinamiche sociali: un varieté di ostentazione, classismo, libertà di espressione imbrigliata, meschinità trasversale. D’altronde, il Diavolo Woland adotta la magia al contrario, perché il trucco non è inganno, ma, nel più tranciante dei contrari, disvelamento, di quella realtà, da tutti sottaciuta. In un grande e diffuso gioco di prestigio, che coinvolge tutti i personaggi variamente presenti nella trama, da quelli più centrali alle comparse, è il Diavolo a portare realizzazione di quell’intimo desiderio di libertà e consolazione; a tutti, senza distinzione, perché nessuno è migliore degli altri. E, allora, in questo mondo all’improvviso posto al contrario è il Diavolo a impersonare il giustiziere, a gratificare i buoni, a impaurire i cattivi, che, tuttavia, senza redimersi, tali, dopo il momentaneo spavento, torneranno. È Woland a risarcire, paradossalmente, quello che la società ha tolto e, in una ardita rivisitazione della dottrina cristiana, saranno beati gli afflitti, perché saranno consolati, non dal bene, ma da un male, che può agire anche per fare del bene. Senza commistioni.

Commistione che, per converso, si realizza tra presente e passato, tra allegoria e storia, con l’intreccio con i dubbi coscienziosi del procuratore Ponzio Pilato, immortalato appena prima di prendere, senza convinzione alcuna, la decisione di condannare a morte il filosofo Jeshua Ha-Nozri. Con la stessa dinamica manutentiva, viene corretta anche la verità evangelica, perché, perlomeno nel racconto della storia, c’è ancora la possibilità di qualcosa da salvare. Pilato, allora, in questo mondo riflesso, diventa il primo censore di se stesso e, anche, il vendicatore della sua stessa decisione, che tanto lo dilania interiormente; perlomeno, fino alla pseudo-redenzione finale, ottenuta con l’intercessione del Maestro, del quale Pilato rappresentava il protagonista dell’opera omnia.     

Il Maestro e Margherita” è anche una delle più grandi storie d’amore mai raccontate, parola del Prof. Alessandro Barbero. Un amore clandestino, quasi illegale; una storia che sembra collassare lontana dall’auspicato lieto fine, destinata a terminare molto lontano dal più classico dei fiabeschi «E vissero felici e contenti». Così sarebbe accaduto in un mondo senza ombre. Non in quello raccontato da Michail Bulgakov. Nel quale, per converso, i due protagonisti s’incamminano, innamorati, mano nella mano.

Dopo aver mandato tutto al diavolo (ça va sans dire).

Seguici sui social: