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«Una storia di coraggio e forza d’animo, senza i quali nessuno può ambire a diventare un “gigante”, qualsiasi cosa voglia dire per ognuno di noi, ciascuno nel seguire le proprie ambizioni e i propri sogni.»

La saga dei Menabrea racconta una bella storia familiare e trasmette un messaggio di speranza nel futuro, nelle novità, nell’evoluzione della società che premia chi ha occhi per guardare lontano e consapevolezza per investire nel proprio lavoro, senza risparmiarsi in nulla, restando sempre in prima linea. Qui è narrata un’epoca in cui le donne, dall’intuito fino e dalla forza di volontà audace, hanno ancora bisogno che sia un uomo a rappresentarle all’esterno per farsi accettare in società, ma in un percorso di cambiamento sociale e di rottura (per certi versi molto lenta) con il passato.

Questa è la storia di donne ardite che hanno dovuto fare i conti con una realtà troppo triste e dura da sopportare: Carlo Menabrea muore a soli 39 anni, lasciando la sua fabbrica a una giovane moglie e tre bambine ancora molto piccole (una delle quali è Genia, la protagonista del libro); Emilio Thedy muore a 38 anni, lasciando tutto ciò che aveva realizzato (continuando l’attività del suocero Carlo Menabrea) alla giovane moglie Genia e ai loro cinque bambini.

Se la leggenda del nonno narra a Genia che la birra sia stata inventata dalle donne, è realtà inconfutabile che la Menabrea debba il suo successo proprio alle donne di casa: Eugenia Squindo (vedova di Carlo Menabrea) senza perdersi d’animo, alla morte del marito, lascia che a gestire la fabbrica sia il proprio fratello, ma solo fino a quando le figlie (e Genia in particolare) non raggiungeranno l’età adulta o “da marito” che dir si voglia, per consentire, poi, alla fabbrica, una lunga vita gestita dai legittimi eredi di quel Nome.

Genia Menabrea sin da bambina seguirà il procedimento di birrificazione, apprendendone meccanismi e segreti, sostenendo sempre il marito nella gestione del birrificio negli anni dell’età adulta. Lei, la secondogenita di Carlo, è la prescelta per continuare la passione e il lavoro di famiglia: il nonno ed il papà avevano puntato sin da subito su di lei per quel ruolo, per la sua curiosità, l’ardire, l’audacia, la voglia di non darsi mai per vinta.

La storia di Genia Menabrea e la storia dell’omonimo birrificio si intrecciano continuamente in un walzer di emozioni, ricordi, speranze nel domani e paure del presente: si legge di nascite, di matrimoni, di feste, di magnificenza, ma anche di morte, dolore e perdite impossibili da rimpiazzare. Insomma, si legge la vita nella storia, che si svolge nella Storia di un Paese, l’Italia, in continuo fermento, in una fase di rapida apertura verso le tendenze d’oltralpe, in contesti così al limite (territoriale) da potersi già sentire Europei quando in altre Regioni d’Italia si imparava a stento a sentirsi italiani: la birra nasce dove c’è il ghiaccio e il ghiaccio viene dalle montagne; la birra la fanno i montanari e quelli di successo sono coloro i quali hanno voluto scoprire cosa si celava dietro le vette più alte.

Tra le righe di questa storia si legge la sofferenza di una vita comune a ogni essere, quel tipo di sofferenza che nemmeno la ricchezza può bandire e ci lascia trasportare da un vivo sentimento di coraggio e forza d’animo, senza i quali nessuno può ambire a diventare un “gigante”, qualsiasi cosa voglia dire per ognuno di noi, ciascuno nel seguire le proprie ambizioni e i propri sogni.

Il libro è bello, positivo, leggero, vivo, ma sebbene la storia sia importante, accattivante e superbamente reale, il testo manca di quella magia propria di altre saghe familiari, che qui rappresenta l’anello debole di una struttura ben solida, quella chiusura imperfetta del braccialetto che presto o tardi ne causerà la rottura. Questa constatazione personalissima lascia l’amaro in bocca e forse è il segno tangibile di un ottimo lavoro di ricostruzione storica, che difetta dell’arte di saper modellare la storia, romanzandola quanto basta, semplicemente scegliendo la giusta parola dal grande paiolo dei sinonimi.

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