“C’erano più sciocchi che ladri, ma i ladri si trovavano a livelli più alti”: è questa la frase che più fotografa, dinamicamente, l’attimo prima dell’implosione. Un teatro, quello del trading obbligazionario (e azionario), mosso dal noleggio delle competenze, nel quale, con una evidente dissimmetria, il successo equivale a una vittoria personale e l’insuccesso, per converso, a un problema sociale. Su questo stesso proscenio, Michael Lewis inserisce, in modo cauto, i suoi quattro attori protagonisti, ciascuno isolatamente, quasi a volere che si presentino da soli, in una sorta di provino teatrale. Il castello di carta (o il palazzo, per utilizzare una terminologia più nelle corde dell’Autore) dei mutui subprime, dei “cds” (ovverosia, “credit default swap” e “collateralized debt obligation”, ndr; acronimi con i quali il lettore dovrà acquisire una certa dimestichezza), diventa la “grande scommessa” di quattro outsider, di quattro underdog, di quattro personaggi quasi in cerca di autore e che trovano nella narrazione di Lewis, con rigore scientifico e con la penna di chi ha studiato, seguito, vissuto e, ancor prima, profetizzato gli eventi, la loro consacrazione e la loro riabilitazione, la loro personale vittoria, contro chi ne aveva sistematicamente svalutato le idee.
Il romanzo è, invero, anche l’attribuzione, pubblica e poetica, della ragione, che, come recita un noto adagio, non è bastevole solo avere, ma è necessario anche trovare qualcuno che la certifichi; a rimediare, quasi, a quel sistema finanziario, che, per converso, non aveva attribuito alcuna medaglia, premiando, anzi, indistintamente, alla fine dei giochi, coloro che avevano giocato d’azzardo, avendo le probabilità a favore, e, allo stesso tempo, anche coloro che avevano azzardato ugualmente, pur avendole contro.