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«La storia vera di coloro che hanno bancato il sistema finanziario»

«Si possono spiegare gli argomenti più difficili all’uomo più lento di comprendonio se non si è già fatto un’idea degli stessi, mentre non si può chiarire nemmeno il concetto più semplice all’umo più intelligente se è fermamente convinto di conoscere già, senz’ombra di dubbio, ciò che ha di fronte»: non è casuale questa citazione di Lev Tolstoj, posta scientemente in prefazione, perché, nella massima semplificazione, “La grande scommessa” di Michael Lewis è la (ri)prova che le persone, nei mercati finanziari, sì come nella vita, vedono solo quello che possono o vogliono vedere.

Non è una lettura semplice, soprattutto per neofiti e neo-adepti del comparto finanziario (a giovarne, in termini di importanza, è senz’altro lo stringato glossario, in calce alla storia), e non potrebbe essere altrimenti, visto che una delle malcelate direttrici della narrazione è il trionfo del linguaggio sulla verità: l’uso, strumentale e opportunistico, delle parole, semplici e composte, isolate e articolare, come sofisticazione della realtà delle cose, a ricreare una sorta di velo di Maya, di schopenhaueriana memoria, attualizzato e ricontestualizzato. La vanità (non a caso il peccato decisamente preferito del “diavolo” John Milton) ha condotto il sistema finanziario in una spirale di sovrapproduzione di prodotti, dapprima originali, poi, finanche sintetici, e, infine, anche cloni, cagionandone una intossicazione sindemica e conducendolo a credere ciecamente alle proprie bugie, a quelle stesse bugie artefattamente congeniate, per essere collocate e ricollocate, in un vizioso effetto domino, per incassare premi assicurativi contro le alluvioni, anche nel caso di caduta di una singola goccia di pioggia.

“C’erano più sciocchi che ladri, ma i ladri si trovavano a livelli più alti”: è questa la frase che più fotografa, dinamicamente, l’attimo prima dell’implosione. Un teatro, quello del trading obbligazionario (e azionario), mosso dal noleggio delle competenze, nel quale, con una evidente dissimmetria, il successo equivale a una vittoria personale e l’insuccesso, per converso, a un problema sociale. Su questo stesso proscenio, Michael Lewis inserisce, in modo cauto, i suoi quattro attori protagonisti, ciascuno isolatamente, quasi a volere che si presentino da soli, in una sorta di provino teatrale. Il castello di carta (o il palazzo, per utilizzare una terminologia più nelle corde dell’Autore) dei mutui subprime, dei “cds” (ovverosia, “credit default swap” e “collateralized debt obligation”, ndr; acronimi con i quali il lettore dovrà acquisire una certa dimestichezza), diventa la “grande scommessa” di quattro outsider, di quattro underdog, di quattro personaggi quasi in cerca di autore e che trovano nella narrazione di Lewis, con rigore scientifico e con la penna di chi ha studiato, seguito, vissuto e, ancor prima, profetizzato gli eventi, la loro consacrazione e la loro riabilitazione, la loro personale vittoria, contro chi ne aveva sistematicamente svalutato le idee.

Il romanzo è, invero, anche l’attribuzione, pubblica e poetica, della ragione, che, come recita un noto adagio, non è bastevole solo avere, ma è necessario anche trovare qualcuno che la certifichi; a rimediare, quasi, a quel sistema finanziario, che, per converso, non aveva attribuito alcuna medaglia, premiando, anzi, indistintamente, alla fine dei giochi, coloro che avevano giocato d’azzardo, avendo le probabilità a favore, e, allo stesso tempo, anche coloro che avevano azzardato ugualmente, pur avendole contro.

Pur non essendo una lettura a tratti agevole, la storia nota del default del 2008, di un sistema finanziario ingolfato e imploso a causa delle proprie incongruenze, può avere una portata più ampia e, anche, decontestualizzata. Che si può riassumere in una metafora. Quella di una gara di tiro alla fune; con gli ottimisti, da un lato, e i pessimisti, dall’altro; i millantatori contro i realisti; i venditori contro gli acquirenti; i buoni contro i cattivi.

Alla fine, però, a spezzarsi è stata la fune. E a non cadere son stati solo quelli che, avvedutamente, avevano mollato per tempo, uno dei suoi due capi.

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