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Nota a Cass. Civ., Sez. I, 12 ottobre 2022, n. 29855.

Massima redazionale

In tema di ripetizione di indebito opera il normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore il quale è tenuto a dimostrare sia l’avvenuto pagamento sia la mancanza di una causa che lo giustifichi[1]. Il principio trova applicazione anche ove si faccia questione dell’obbligazione restitutoria dipendente dalla (asserita) nullità di singole clausole contrattuali. Infatti, chi allega di avere effettuato un pagamento dovuto solo in parte, e proponga nei confronti dell’accipiens l’azione di indebito oggettivo per la somma pagata in eccedenza, ha l’onere di provare l’inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta[2]. Invero, la giurisprudenza di legittimità ha avuto, a più riprese, occasione di affermare che «alle controversie tra Banca e correntista, introdotte su domanda del secondo allo scopo di contestare il saldo negativo per il cliente e di far rideterminare i movimenti ed il saldo finale del rapporto, alla luce della pretesa invalidità delle clausole contrattuali costituenti il regolamento pattizio e, così, ottenere la condanna della Banca al pagamento delle maggiori spettanze dell’attore, quest’ultimo è gravato del corrispondente onere probatorio, che attiene agli aspetti oggetto della contestazione»[3]. È stato, infatti, stabilito che il correntista, il quale agisca in giudizio per la ripetizione dell’indebito è tenuto a fornire la prova sia degli avvenuti pagamenti che della mancanza, rispetto ad essi, di una valida causa debendi, sicché il medesimo ha l’onere di documentare l’andamento del rapporto con la produzione di tutti quegli estratti conto che evidenziano le singole rimesse suscettibili di ripetizione in quanto riferite a somme non dovute.

Tale orientamento è stato ribadito anche di recente, affermando che il correntista è onerato della ricostruzione dell’intero andamento del rapporto, con la conseguenza che non può essere accolta la domanda di restituzione se siano incompleti gli estratti conto attestanti le singole rimesse suscettibili di ripetizione e che il cliente, il quale agisca in giudizio per la ripetizione dell’indebito, è tenuto a fornire la prova dei movimenti del conto anche se il giudice può integrare la prova carente, sulla base delle deduzioni svolte dalla parte, con altri mezzi di cognizione disposti d’ufficio, in particolare disponendo una consulenza contabile[4].

Ancor più di recente, è stato affermato il principio per cui «il diritto spettante al cliente, a colui che gli succede a qualunque titolo o che subentra nell’amministrazione dei suoi beni, ad ottenere, a proprie spese, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni, ivi compresi gli estratti conto, sancito dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 119, comma 4, può essere esercitato in sede giudiziale attraverso l’istanza di cui all’art. 210 c.p.c., in concorso dei presupposti previsti da tale disposizione, a condizione che detta documentazione sia stata precedentemente richiesta alla banca e quest’ultima, senza giustificazione, non abbia ottemperato»[5].

Nel caso di specie, parte ricorrente invoca la violazione dell’art. 2697 c.c., ma non fornisce gli elementi necessari per giudicare il merito delle censure. Secondo la giurisprudenza consolidata, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura solo nell’ipotesi in cui il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, ma non anche laddove si contesti il concreto apprezzamento delle risultanze istruttorie, assumendosi che le stesse non avrebbero dovuto portare al convincimento raggiunto dal giudice di merito[6]. Con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c., giova ricordare che detta norma sancisce il principio della disponibilità delle prove e stabilisce che, salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal Pubblico Ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita, soggiungendo che il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Ebbene, una questione di violazione o di falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali[7].

La Corte distrettuale, in applicazione dei sopra menzionati principi, ha addebitato all’originaria parte attrice di non aver anzitutto allegato compiutamente i fatti posti a fondamento della domanda e, altresì, di non averli provati e su queste basi ha ritenuto che l’unica soluzione da scegliere fosse quella che prevedeva la conservazione degli interessi applicati. La critica mossa dall’appellante, laddove imputa alla banca di non aver provato la pattuizione per iscritto della misura degli interessi, della clausola di reciprocità, dell’anatocismo sin dall’inizio del rapporto e del successivo ius variandi si pone dunque in aperta violazione del principio poc’anzi richiamato secondo cui spetta a colui che agisce in ripetizione dell’indebito provare il pagamento effettuato e l’assenza di causa solvendi.

 

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[1] Cfr. Cass. 27 novembre 2018, n. 30713; con specifico riguardo alla ripetizione in materia di conto corrente bancario: Cass. 23 ottobre 2017, n. 24948.

[2] Cfr. Cass. 14 maggio 2012, n. 7501.

[3] Cfr. Cass., 28 novembre 2018, n. 30822.

[4] Cfr. Cass., 17 aprile 2020, n. 7895; Cass., 11 novembre 2019, n. 29050.

[5] Cfr. Cass., 13 settembre 2021, n. 24641; 2022 n. 27861.

[6] Cfr. Cass. Civ., Sez. II, 24.01.2020, n. 1634; Cass. Civ., Sez. Lav., 19.08.2020, n. 17313; Cass. Civ., Sez. VI, 23.10.2018 n. 26769; Cass. Civ., Sez. III, 29.05.2018, n. 13395; Cass. Civ., Sez. II, 07.11.2017 n. 26366.

[7] Cfr. Cass. 27 dicembre 2016, n. 27000; Cass. 11 dicembre 2015, n. 25029; Cass. 19 giugno 2014, n. 13960.

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