La decisione, oggetto del presente commento, ha ad oggetto la presunta violazione degli obblighi di condotta ed informativi posti in essere da un intermediario sottoposto a procedura di risoluzione ex d. lgs. n. 180/2015.
Nelle rimostranze sollevate dal ricorrente si rinvengono alcune questioni preliminari in rito come la legittimazione passiva dell’ente-ponte, che di fatto è subentrato nelle posizioni attive e passive dalla “vecchia banca” sottoposta a LCA.
Sulla predetta eccezion l’Arbitro, in linea con le precedenti pronunce[1], ha ritenuto sussistente la legittimazione passiva dell’ente-ponte in virtù del provvedimento di Banca d’Italia del 22 novembre 2015 con il quale è stato definito il perimetro dell’azienda bancaria ceduta alla Nuova Banca, da cui risulta che oggetto della cessione sono state tutte le situazioni giuridiche attive e passive facenti capo alla Vecchia Banca, eccezion fatta per quelle ivi espressamente escluse[2]. Tale orientamento induce a ritenere che l’obiettivo opportunamente perseguito sia stato quello di “includere il più possibile” e di “escludere il meno possibile” dal perimetro oggetto della cessione, così da preservare la continuità aziendale, a fondamento della quale si pone indissolubilmente anche la continuità dei rapporti contrattuali (attivi e passivi) con la relativa clientela.
Tra le questioni di merito decise dal Collegio, invece, la tematica che suscita particolare interesse è quella relativa agli obblighi di condotta ed informativi a cui l’intermediario, che presta servizi e attività d’investimento, è tenuto; questa volta con un particolare focus sul profilo dell’adeguatezza e dell’appropriatezza degli investimenti alla luce delle operazioni pregresse realizzate dall’investitore, c.d. trading history.
Il ricorrente chiede la risoluzione per inadempimento del contratto di acquisto delle azioni e per effetto la condanna alla restituzione delle somme investite, di accertare e dichiarare la violazione degli obblighi incombenti sull’intermediario finanziario e per effetto condannare la Banca al risarcimento del danno subito; in ultima istanza e nella denegata ipotesi di rigetto di una delle due domande dichiarare la nullità degli acquisti di solo una parte dei titoli azionari.
L’intermediario ha evidenziato che l’operatività è stata eseguita sulla base del contratto-quadro regolarmente sottoscritto e consegnato all’investitore in conformità dell’art. 23 T.U.F.
La controversia esaminata dall’ACF si incentra sull’omessa valutazione di appropriatezza da parte della “vecchia Banca” sui titoli divenuti poi oggetto di contestazione (annualità 2009-2011), a fronte però di un questionario MIFID ed una trading history del ricorrente attestanti l’esperienza e la conoscenza inter alia degli strumenti azionari ed ETF.
Appare opportuno soffermarsi, se pur brevemente, su due importanti profili, che sono rafforzati dalla MIFID II e posti a tutela del l’investitore retail in virtù di quella fisiologica asimmetria informativa che contraddistingue il rapporto tra intermediario e cliente.
Il riferimento è all’adeguatezza ed all’appropriatezza, valutazioni a cui l’intermediario è tenuto in determinate circostanze e valevoli come regole di condotta che devono essere osservate nel processo di intermediazione finanziaria al fine di garantire il corretto svolgimento dei servizi e delle attività di investimento, oltre che dei servizi accessori[3].
Infatti, per lo svolgimento dei servizi di consulenza e di gestione di portafogli viene richiesta dalla normativa secondaria, un’ampia conoscenza del cliente e per effetto un’approfondita e dettagliata valutazione di adeguatezza di quest’ultimo rispetto alle possibili operazioni che lo stesso può realizzare.
La ratio di tale decisione è da individuarsi nel fatto che l’impresa di investimento, nel servizio di consulenza o gestione portafogli, gode di una discrezionalità tale da poter incidere sulla formazione della volontà negoziale dell’investitore.[4]
Diversamente, in tutti gli altri servizi di investimento, è sufficiente una ridotta conoscenza del cliente, limitata di fatto alla sua consapevolezza ed esperienza riguardo al tipo specifico di strumento o di servizio proposto o richiesto, al fine di determinare se quest’ultimo risulti appropriato per il cliente o potenziale cliente.[5]
La normativa, ad ogni modo, prevede una deroga al suddetto principio, ed è proprio su questa eccezione che si incentra la difesa dell’intermediario resistente.
Gli artt. 25, 4 comma T.U.F. e 43, 1 comma, lett. a), Reg. Intermediari, infatti, individuano nella modalità dell’execution only, l’unica eccezione ai principi posti a tutela del cliente retail. Solo in tale circostanza, infatti, “gli Stati membri autorizzano le imprese di investimento, quando prestano servizi di investimento che consistono unicamente nell’esecuzione o nella ricezione e trasmissione di ordini del cliente con o senza servizi accessori — esclusa la concessione di crediti o prestiti ex allegato I, sezione B 1 non consistenti in limiti di credito di prestiti, conti correnti e scoperti di conto già esistenti dei clienti – a prestare detti servizi di investimento ai loro clienti senza che sia necessario ottenere le informazioni o procedere alla determinazione di cui al paragrafo 3 quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) i servizi sono connessi ad uno dei seguenti strumenti finanziari: i) azioni ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato o in un mercato equivalente di un paese terzo o in un sistema multilaterale di negoziazione se si tratta di azioni di società e ad esclusione delle azioni di organismi di investimento collettivo diversi dagli OICVM e delle azioni che incorporano uno strumento derivato; ii) obbligazioni o altre forme di debito cartolarizzato, ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato o in un mercato equivalente di un paese terzo o in un sistema multilaterale di negoziazione, ad esclusione di quelle che incorporano uno strumento derivato o una struttura che rende difficile per il cliente comprendere il rischio associato; iii) strumenti del mercato monetario, ad esclusione di quelli che incorporano uno strumento derivato o una struttura che rende difficile per il cliente comprendere il rischio associato; iv) azioni o quote in OICVM ad esclusione degli OICVM strutturati di cui all’articolo 36, paragrafo 1, secondo comma, del regolamento (UE) n. 583/2010;L 173/410 IT Gazzetta ufficiale dell’Unione europea 12.6.2014 v) depositi strutturati, ad esclusione di quelli che incorporano una struttura che rende difficile per il cliente com prendere il rischio del rendimento o il costo associato all’uscita dal prodotto prima della scadenza; vi) altri strumenti finanziari non complessi ai fini del presente paragrafo. Ai fini della presente lettera, se i requisiti e la procedura stabiliti all’articolo 4, paragrafo 1, terzo e quarto comma, della direttiva 2003/71/CE sono rispettati, un mercato di un paese terzo è considerato equivalente a un mercato regolamentato. b) il servizio è prestato a iniziativa del cliente o potenziale cliente; c) il cliente o potenziale cliente è stato chiaramente informato che, nel prestare tale servizio, l’impresa di investimento non è tenuta a valutare l’appropriatezza dello strumento finanziario o del servizio prestato o proposto e che pertanto egli non beneficia della corrispondente protezione offerta dalle pertinenti norme di comportamento delle imprese. Tale avvertenza può essere fornita utilizzando un formato standardizzato; d) l’impresa di investimento rispetta i propri obblighi a norma dell’articolo 23.”
Trattandosi di una deroga che incide fortemente sulla tutela dell’investitore retail, il legislatore ha sentito avvertito la necessità di dover prevedere in modo dettagliato e predeterminato i soli casi in cui l’intermediario finanziario è autorizzato ad utilizzare procedure semplificate, evitando così di ricorrere anche alla valutazione di appropriatezza.
Va da sé che, una previsione normativa così elaborata non consente alcun margine di modifica da parte degli intermediari, i quali si trovano a poter invocare la suddetta deroga al solo verificarsi contestuale delle quattro condizioni normativamente previste.
Nel caso di specie, invece, le condizioni previste per la fattispecie derogatoria non sembrano in alcun modo essersi configurate, anzi le stesse sono state di fatto sostituite “arbitrariamente” da evenienze di fatto, che hanno poi spinto l’Arbitro a propendere per il rigetto del ricorso.
Di talché, non si ritiene totalmente condivisibile il ragionamento logico-giuridico posto alla base della decisione assunta dal Collegio, in quanto l’omessa valutazione di appropriatezza da parte dell’intermediario sembrerebbe essere giustificata da fattori puramente collegati al caso concreto e non aderenti ai presupposti previsti dall’art. 25, 4 comma del TUF.
Tra questi, una forte incidenza è riconducibile alla natura degli strumenti, oggetto dell’operatività contestata, ed alla stretta connessione di questi con l’attività finanziaria pregressa del cliente. Difatti, il resistente pone l’attenzione sulla composizione delle azioni contestante, composte in parte da azioni collegate all’esercizio del diritto di opzione ed in parte a quello del diritto di prelazione.
Nel richiamare la disciplina civilistica, l’art. 2441 c.c. [6], rubricato diritto di opzione, stabilisce che “le azioni di nuova emissione e le obbligazioni convertibili in azioni devono essere offerte in opzione ai soci in proporzione al numero delle azioni possedute. Se vi sono obbligazioni convertibili il diritto di opzione spetta anche ai possessori di queste, in concorso con i soci, sulla base del rapporto di cambio”. Presupposto logico, dunque, per l’esercizio di suddetto diritto è rappresentato dalla preventiva detenzione da parte dell’azionista delle medesime azioni della società.
Nel caso di specie, l’investitore era già in possesso di azioni analoghe, per cui con l’esercizio del diritto di opzione, la discrezionalità della vecchia Banca nell’offerta di azioni per l’aumento di capitale, risultava essere fortemente limitata.
La pregressa detenzione in portafoglio di azioni della medesima natura ha, quindi, consentito di far presupporre che l’investitore fosse adeguatamente informato già prima di aderire all’offerta di aumento di capitale.
Ma può questo aspetto essere una condizione necessaria e sufficiente per aggirare la deroga normativa prevista dal legislatore a tutela dell’investitore retail?
In verità e da un’attenta analisi della decisione, la c.d. trading history non sembrerebbe poter assurgere a condizione rimediale in virtù del mancato adempimento degli obblighi informativi, che l’intermediario è in ogni caso tenuto a rispettare.
Specificamente, la Suprema Corte di Cassazione è concorde nel ritenere che “a nulla rileva che l’investitore abbia già compiuto ulteriori operazioni di investimento; le informazioni, infatti, devono essere concrete e specifiche, come propriamente ritagliate sul singolo prodotto di investimento e devono essere trasmesse indipendentemente dalle peculiari caratteristiche dell’esperienza dell’investitore e di peso dell’investimento rispetto al patrimonio complessivamente investito[7]”
Da tanto ne consegue che, neppure l’ulteriore profilo invocato dal resistente, ovvero quello del documento informativo sottoposto al cliente al momento della stipula del contratto quadro, con il quale si dava atto della “politica di esecuzione e trasmissione di ordini avente ad oggetto azioni del gruppo societario trattate in un mercato interno non regolamentato”, possa rappresentare un valido strumento alternativo agli obblighi informativi, ai quali gli intermediari sono tenuti per ogni singola operazione richiesta dal cliente o possibile cliente.
Con questo particolare inciso, quindi, la vecchia Banca ha ritenuto di aver adeguatamente ottemperato all’obbligo informativo nei confronti del cliente o possibile cliente per tutte le operazioni future. Invero, anche questa impostazione sembrerebbe mal conciliarsi con l’impianto garantista che il legislatore ha previsto a tutela del cliente retail[8].
L’Arbitro, invece discostandosi da dall’orientamento sopra richiamato, e pur rilevando l’assenza di una valutazione di ritiene che “diversamente da quella di adeguatezza (che tuttavia nel caso in esame non era dovuta, giacché non è provata la prestazione di un servizio di consulenza) – la valutazione di appropriatezza implica esclusivamente un’analisi di coerenza dell’investimento con il livello di conoscenza ed esperienza in materia finanziaria vantato dal cliente. Orbene, nel caso di specie, in occasione degli investimenti del 2009 e 2011 la conoscenza degli strumenti azionari era dimostrata in re ipsa dalla presenza degli stessi titoli già da molti anni prima nel portafoglio del ricorrente, oltre ad essere stata comunque espressamente dichiarata dal ricorrente in occasione della sottoscrizione del questionario di profilatura.”[9]
La chiave di lettura riconosciuta alla trading history sembrerebbe essere quella di cartina di tornasole tutte le volte in cui che le condizioni previste dall’art. 25, 4 comma, T.U.F., non risultino ampiamente soddisfatte.
Appare di tutta evidenza che un principio di tale portata apre inevitabilmente la strada ad un variegato spettro di approfondimenti e valutazioni da parte della dottrina e della giurisprudenza, non potendosi, sic et simpliciter, ritenere correttamente adempiuto l’obbligo informativo previsto per legge mendiate il suppletivo ricorso dell’intermediario alla trading history del cliente.
Diversamente, un riconoscimento così incisivo sia delle operazioni pregresse dell’investitore che del set informativo reso in sede di stipula del contratto quadro per tutte le operazioni future, finirebbe ad assurgere per l’Arbitro ad elemento indiziario nella valutazione delle condotte poste in essere dall’intermediario e per l’intermediario stesso a prova presuntiva laddove quest’ultimo riuscisse a fornire elementi probatori chiari, precisi e concordanti.
_______________________________
[1] Ex multis ACF, n. 5833/22; ACF n. 2287/2020; ACF n. 165/2018.
[2] Provvedimento Banca d’Italia del 22 novembre 2015: “Fatto salvo quanto previsto al successivo punto 2, tutti i diritti, le attività e le passività costituenti l’azienda bancaria della banca in risoluzione, ivi compresi i 6 diritti reali sui beni mobili e immobili, i rapporti contrattuali e i giudizi attivi e passivi, incluse le azioni di responsabilità, risarcitorie e di regresso, in essere alla data di efficacia della cessione, sono ceduti, ai sensi degli artt. 43 e 47 del d.lgs. 180/2015, all’ente ponte”; il successivo punto 2 : “Restano esclusi dalla cessione…. soltanto le passività, diverse dagli strumenti di capitale, come definiti dall’art. 1, lettera ppp) del d.lgs. n. 180/2015, in essere alla data di efficacia della cessione, non computabili nei fondi propri, il cui diritto al rimborso del capitale è contrattualmente subordinato al soddisfacimento di tutti i creditori non subordinati dell’ente in risoluzione”
[3] Gaffuri – “La valutazione dell’adeguatezza e dell’appropriatezza di strumenti finanziari e servizi di investimento.” – Il Caso.it – doc. 128/08.
[4] Art. 41 del Reg. Intermediari, aggiornato con delb. N. 22430/22.
[5] Art. 42 del Reg. Intermediari, aggiornato con delb. N. 22430/22.
[6] Della Tommasina, La produzione e la distribuzione di strumenti finanziari (tra servizi di investimento esecutivi, aumenti di capitale senza consulenza e derivati over the counter), in Banca, borsa e tit. cred., 2021, p. 262, sul punto evidenzia che l’aumento di capitale, non escludendo né limitando il diritto di opzione, non risponde a scelte di natura commerciale in quanto in tale operazione la discrezionalità dell’intermediario è azzerata dal disposto dell’art. 2441 c.c. Ne discende, quindi, la necessità di programmare canali di distribuzione vincolati al regime di appropriatezza, l’unico che consente un’interazione non conflittuale tra le regole societarie e la disciplina del mercato finanziario, preservando la libertà di autodeterminazione dell’investitore e garantendo al contempo un’istruzione adeguata del suo “profilo”.
[7] Ex multis Cass. Civ. n. 3914/2018; Cass. Civ. 16318/2017; Cass. Civ. n. 8619/2017; Cass. Civ. n. 20617/2017.
[8] Un risalente filone della Giurisprudenza di legittimità ha sostenuto il principio secondo cui l’obbligo informativo posto a carico dell’intermediario abbia la funzione di orientare il cliente nelle scelte di investimento realmente consapevoli per cui, violando gli obblighi informativi si ingeneri una presunzione di riconducibilità dell’operazione a tale inadempimento. L’intermediario potrà vincere tale presunzione provando l’interruzione del nesso causale ma a ciò non potrà contribuire una generica propensione al rischio desunta da scelte intrinsecamente rischiose pregresse.
[9] ACF, n. 4514/21.
Nota ad ACF, 21 settembre 2022, n. 5862.
di Lucia Carpinelli
AvvocatoLa decisione, oggetto del presente commento, ha ad oggetto la presunta violazione degli obblighi di condotta ed informativi posti in essere da un intermediario sottoposto a procedura di risoluzione ex d. lgs. n. 180/2015.
Nelle rimostranze sollevate dal ricorrente si rinvengono alcune questioni preliminari in rito come la legittimazione passiva dell’ente-ponte, che di fatto è subentrato nelle posizioni attive e passive dalla “vecchia banca” sottoposta a LCA.
Sulla predetta eccezion l’Arbitro, in linea con le precedenti pronunce[1], ha ritenuto sussistente la legittimazione passiva dell’ente-ponte in virtù del provvedimento di Banca d’Italia del 22 novembre 2015 con il quale è stato definito il perimetro dell’azienda bancaria ceduta alla Nuova Banca, da cui risulta che oggetto della cessione sono state tutte le situazioni giuridiche attive e passive facenti capo alla Vecchia Banca, eccezion fatta per quelle ivi espressamente escluse[2]. Tale orientamento induce a ritenere che l’obiettivo opportunamente perseguito sia stato quello di “includere il più possibile” e di “escludere il meno possibile” dal perimetro oggetto della cessione, così da preservare la continuità aziendale, a fondamento della quale si pone indissolubilmente anche la continuità dei rapporti contrattuali (attivi e passivi) con la relativa clientela.
Tra le questioni di merito decise dal Collegio, invece, la tematica che suscita particolare interesse è quella relativa agli obblighi di condotta ed informativi a cui l’intermediario, che presta servizi e attività d’investimento, è tenuto; questa volta con un particolare focus sul profilo dell’adeguatezza e dell’appropriatezza degli investimenti alla luce delle operazioni pregresse realizzate dall’investitore, c.d. trading history.
Il ricorrente chiede la risoluzione per inadempimento del contratto di acquisto delle azioni e per effetto la condanna alla restituzione delle somme investite, di accertare e dichiarare la violazione degli obblighi incombenti sull’intermediario finanziario e per effetto condannare la Banca al risarcimento del danno subito; in ultima istanza e nella denegata ipotesi di rigetto di una delle due domande dichiarare la nullità degli acquisti di solo una parte dei titoli azionari.
L’intermediario ha evidenziato che l’operatività è stata eseguita sulla base del contratto-quadro regolarmente sottoscritto e consegnato all’investitore in conformità dell’art. 23 T.U.F.
La controversia esaminata dall’ACF si incentra sull’omessa valutazione di appropriatezza da parte della “vecchia Banca” sui titoli divenuti poi oggetto di contestazione (annualità 2009-2011), a fronte però di un questionario MIFID ed una trading history del ricorrente attestanti l’esperienza e la conoscenza inter alia degli strumenti azionari ed ETF.
Appare opportuno soffermarsi, se pur brevemente, su due importanti profili, che sono rafforzati dalla MIFID II e posti a tutela del l’investitore retail in virtù di quella fisiologica asimmetria informativa che contraddistingue il rapporto tra intermediario e cliente.
Il riferimento è all’adeguatezza ed all’appropriatezza, valutazioni a cui l’intermediario è tenuto in determinate circostanze e valevoli come regole di condotta che devono essere osservate nel processo di intermediazione finanziaria al fine di garantire il corretto svolgimento dei servizi e delle attività di investimento, oltre che dei servizi accessori[3].
Infatti, per lo svolgimento dei servizi di consulenza e di gestione di portafogli viene richiesta dalla normativa secondaria, un’ampia conoscenza del cliente e per effetto un’approfondita e dettagliata valutazione di adeguatezza di quest’ultimo rispetto alle possibili operazioni che lo stesso può realizzare.
La ratio di tale decisione è da individuarsi nel fatto che l’impresa di investimento, nel servizio di consulenza o gestione portafogli, gode di una discrezionalità tale da poter incidere sulla formazione della volontà negoziale dell’investitore.[4]
Diversamente, in tutti gli altri servizi di investimento, è sufficiente una ridotta conoscenza del cliente, limitata di fatto alla sua consapevolezza ed esperienza riguardo al tipo specifico di strumento o di servizio proposto o richiesto, al fine di determinare se quest’ultimo risulti appropriato per il cliente o potenziale cliente.[5]
La normativa, ad ogni modo, prevede una deroga al suddetto principio, ed è proprio su questa eccezione che si incentra la difesa dell’intermediario resistente.
Gli artt. 25, 4 comma T.U.F. e 43, 1 comma, lett. a), Reg. Intermediari, infatti, individuano nella modalità dell’execution only, l’unica eccezione ai principi posti a tutela del cliente retail. Solo in tale circostanza, infatti, “gli Stati membri autorizzano le imprese di investimento, quando prestano servizi di investimento che consistono unicamente nell’esecuzione o nella ricezione e trasmissione di ordini del cliente con o senza servizi accessori — esclusa la concessione di crediti o prestiti ex allegato I, sezione B 1 non consistenti in limiti di credito di prestiti, conti correnti e scoperti di conto già esistenti dei clienti – a prestare detti servizi di investimento ai loro clienti senza che sia necessario ottenere le informazioni o procedere alla determinazione di cui al paragrafo 3 quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) i servizi sono connessi ad uno dei seguenti strumenti finanziari: i) azioni ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato o in un mercato equivalente di un paese terzo o in un sistema multilaterale di negoziazione se si tratta di azioni di società e ad esclusione delle azioni di organismi di investimento collettivo diversi dagli OICVM e delle azioni che incorporano uno strumento derivato; ii) obbligazioni o altre forme di debito cartolarizzato, ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato o in un mercato equivalente di un paese terzo o in un sistema multilaterale di negoziazione, ad esclusione di quelle che incorporano uno strumento derivato o una struttura che rende difficile per il cliente comprendere il rischio associato; iii) strumenti del mercato monetario, ad esclusione di quelli che incorporano uno strumento derivato o una struttura che rende difficile per il cliente comprendere il rischio associato; iv) azioni o quote in OICVM ad esclusione degli OICVM strutturati di cui all’articolo 36, paragrafo 1, secondo comma, del regolamento (UE) n. 583/2010;L 173/410 IT Gazzetta ufficiale dell’Unione europea 12.6.2014 v) depositi strutturati, ad esclusione di quelli che incorporano una struttura che rende difficile per il cliente com prendere il rischio del rendimento o il costo associato all’uscita dal prodotto prima della scadenza; vi) altri strumenti finanziari non complessi ai fini del presente paragrafo. Ai fini della presente lettera, se i requisiti e la procedura stabiliti all’articolo 4, paragrafo 1, terzo e quarto comma, della direttiva 2003/71/CE sono rispettati, un mercato di un paese terzo è considerato equivalente a un mercato regolamentato. b) il servizio è prestato a iniziativa del cliente o potenziale cliente; c) il cliente o potenziale cliente è stato chiaramente informato che, nel prestare tale servizio, l’impresa di investimento non è tenuta a valutare l’appropriatezza dello strumento finanziario o del servizio prestato o proposto e che pertanto egli non beneficia della corrispondente protezione offerta dalle pertinenti norme di comportamento delle imprese. Tale avvertenza può essere fornita utilizzando un formato standardizzato; d) l’impresa di investimento rispetta i propri obblighi a norma dell’articolo 23.”
Trattandosi di una deroga che incide fortemente sulla tutela dell’investitore retail, il legislatore ha sentito avvertito la necessità di dover prevedere in modo dettagliato e predeterminato i soli casi in cui l’intermediario finanziario è autorizzato ad utilizzare procedure semplificate, evitando così di ricorrere anche alla valutazione di appropriatezza.
Va da sé che, una previsione normativa così elaborata non consente alcun margine di modifica da parte degli intermediari, i quali si trovano a poter invocare la suddetta deroga al solo verificarsi contestuale delle quattro condizioni normativamente previste.
Nel caso di specie, invece, le condizioni previste per la fattispecie derogatoria non sembrano in alcun modo essersi configurate, anzi le stesse sono state di fatto sostituite “arbitrariamente” da evenienze di fatto, che hanno poi spinto l’Arbitro a propendere per il rigetto del ricorso.
Di talché, non si ritiene totalmente condivisibile il ragionamento logico-giuridico posto alla base della decisione assunta dal Collegio, in quanto l’omessa valutazione di appropriatezza da parte dell’intermediario sembrerebbe essere giustificata da fattori puramente collegati al caso concreto e non aderenti ai presupposti previsti dall’art. 25, 4 comma del TUF.
Tra questi, una forte incidenza è riconducibile alla natura degli strumenti, oggetto dell’operatività contestata, ed alla stretta connessione di questi con l’attività finanziaria pregressa del cliente. Difatti, il resistente pone l’attenzione sulla composizione delle azioni contestante, composte in parte da azioni collegate all’esercizio del diritto di opzione ed in parte a quello del diritto di prelazione.
Nel richiamare la disciplina civilistica, l’art. 2441 c.c. [6], rubricato diritto di opzione, stabilisce che “le azioni di nuova emissione e le obbligazioni convertibili in azioni devono essere offerte in opzione ai soci in proporzione al numero delle azioni possedute. Se vi sono obbligazioni convertibili il diritto di opzione spetta anche ai possessori di queste, in concorso con i soci, sulla base del rapporto di cambio”. Presupposto logico, dunque, per l’esercizio di suddetto diritto è rappresentato dalla preventiva detenzione da parte dell’azionista delle medesime azioni della società.
Nel caso di specie, l’investitore era già in possesso di azioni analoghe, per cui con l’esercizio del diritto di opzione, la discrezionalità della vecchia Banca nell’offerta di azioni per l’aumento di capitale, risultava essere fortemente limitata.
La pregressa detenzione in portafoglio di azioni della medesima natura ha, quindi, consentito di far presupporre che l’investitore fosse adeguatamente informato già prima di aderire all’offerta di aumento di capitale.
Ma può questo aspetto essere una condizione necessaria e sufficiente per aggirare la deroga normativa prevista dal legislatore a tutela dell’investitore retail?
In verità e da un’attenta analisi della decisione, la c.d. trading history non sembrerebbe poter assurgere a condizione rimediale in virtù del mancato adempimento degli obblighi informativi, che l’intermediario è in ogni caso tenuto a rispettare.
Specificamente, la Suprema Corte di Cassazione è concorde nel ritenere che “a nulla rileva che l’investitore abbia già compiuto ulteriori operazioni di investimento; le informazioni, infatti, devono essere concrete e specifiche, come propriamente ritagliate sul singolo prodotto di investimento e devono essere trasmesse indipendentemente dalle peculiari caratteristiche dell’esperienza dell’investitore e di peso dell’investimento rispetto al patrimonio complessivamente investito[7]”
Da tanto ne consegue che, neppure l’ulteriore profilo invocato dal resistente, ovvero quello del documento informativo sottoposto al cliente al momento della stipula del contratto quadro, con il quale si dava atto della “politica di esecuzione e trasmissione di ordini avente ad oggetto azioni del gruppo societario trattate in un mercato interno non regolamentato”, possa rappresentare un valido strumento alternativo agli obblighi informativi, ai quali gli intermediari sono tenuti per ogni singola operazione richiesta dal cliente o possibile cliente.
Con questo particolare inciso, quindi, la vecchia Banca ha ritenuto di aver adeguatamente ottemperato all’obbligo informativo nei confronti del cliente o possibile cliente per tutte le operazioni future. Invero, anche questa impostazione sembrerebbe mal conciliarsi con l’impianto garantista che il legislatore ha previsto a tutela del cliente retail[8].
L’Arbitro, invece discostandosi da dall’orientamento sopra richiamato, e pur rilevando l’assenza di una valutazione di ritiene che “diversamente da quella di adeguatezza (che tuttavia nel caso in esame non era dovuta, giacché non è provata la prestazione di un servizio di consulenza) – la valutazione di appropriatezza implica esclusivamente un’analisi di coerenza dell’investimento con il livello di conoscenza ed esperienza in materia finanziaria vantato dal cliente. Orbene, nel caso di specie, in occasione degli investimenti del 2009 e 2011 la conoscenza degli strumenti azionari era dimostrata in re ipsa dalla presenza degli stessi titoli già da molti anni prima nel portafoglio del ricorrente, oltre ad essere stata comunque espressamente dichiarata dal ricorrente in occasione della sottoscrizione del questionario di profilatura.”[9]
La chiave di lettura riconosciuta alla trading history sembrerebbe essere quella di cartina di tornasole tutte le volte in cui che le condizioni previste dall’art. 25, 4 comma, T.U.F., non risultino ampiamente soddisfatte.
Appare di tutta evidenza che un principio di tale portata apre inevitabilmente la strada ad un variegato spettro di approfondimenti e valutazioni da parte della dottrina e della giurisprudenza, non potendosi, sic et simpliciter, ritenere correttamente adempiuto l’obbligo informativo previsto per legge mendiate il suppletivo ricorso dell’intermediario alla trading history del cliente.
Diversamente, un riconoscimento così incisivo sia delle operazioni pregresse dell’investitore che del set informativo reso in sede di stipula del contratto quadro per tutte le operazioni future, finirebbe ad assurgere per l’Arbitro ad elemento indiziario nella valutazione delle condotte poste in essere dall’intermediario e per l’intermediario stesso a prova presuntiva laddove quest’ultimo riuscisse a fornire elementi probatori chiari, precisi e concordanti.
_______________________________
[1] Ex multis ACF, n. 5833/22; ACF n. 2287/2020; ACF n. 165/2018.
[2] Provvedimento Banca d’Italia del 22 novembre 2015: “Fatto salvo quanto previsto al successivo punto 2, tutti i diritti, le attività e le passività costituenti l’azienda bancaria della banca in risoluzione, ivi compresi i 6 diritti reali sui beni mobili e immobili, i rapporti contrattuali e i giudizi attivi e passivi, incluse le azioni di responsabilità, risarcitorie e di regresso, in essere alla data di efficacia della cessione, sono ceduti, ai sensi degli artt. 43 e 47 del d.lgs. 180/2015, all’ente ponte”; il successivo punto 2 : “Restano esclusi dalla cessione…. soltanto le passività, diverse dagli strumenti di capitale, come definiti dall’art. 1, lettera ppp) del d.lgs. n. 180/2015, in essere alla data di efficacia della cessione, non computabili nei fondi propri, il cui diritto al rimborso del capitale è contrattualmente subordinato al soddisfacimento di tutti i creditori non subordinati dell’ente in risoluzione”
[3] Gaffuri – “La valutazione dell’adeguatezza e dell’appropriatezza di strumenti finanziari e servizi di investimento.” – Il Caso.it – doc. 128/08.
[4] Art. 41 del Reg. Intermediari, aggiornato con delb. N. 22430/22.
[5] Art. 42 del Reg. Intermediari, aggiornato con delb. N. 22430/22.
[6] Della Tommasina, La produzione e la distribuzione di strumenti finanziari (tra servizi di investimento esecutivi, aumenti di capitale senza consulenza e derivati over the counter), in Banca, borsa e tit. cred., 2021, p. 262, sul punto evidenzia che l’aumento di capitale, non escludendo né limitando il diritto di opzione, non risponde a scelte di natura commerciale in quanto in tale operazione la discrezionalità dell’intermediario è azzerata dal disposto dell’art. 2441 c.c. Ne discende, quindi, la necessità di programmare canali di distribuzione vincolati al regime di appropriatezza, l’unico che consente un’interazione non conflittuale tra le regole societarie e la disciplina del mercato finanziario, preservando la libertà di autodeterminazione dell’investitore e garantendo al contempo un’istruzione adeguata del suo “profilo”.
[7] Ex multis Cass. Civ. n. 3914/2018; Cass. Civ. 16318/2017; Cass. Civ. n. 8619/2017; Cass. Civ. n. 20617/2017.
[8] Un risalente filone della Giurisprudenza di legittimità ha sostenuto il principio secondo cui l’obbligo informativo posto a carico dell’intermediario abbia la funzione di orientare il cliente nelle scelte di investimento realmente consapevoli per cui, violando gli obblighi informativi si ingeneri una presunzione di riconducibilità dell’operazione a tale inadempimento. L’intermediario potrà vincere tale presunzione provando l’interruzione del nesso causale ma a ciò non potrà contribuire una generica propensione al rischio desunta da scelte intrinsecamente rischiose pregresse.
[9] ACF, n. 4514/21.
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