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Nota a Trib. Massa, 10 gennaio 2022, n. 16 (segnalazione a cura dell’Avv. Antonio Tanza).

 

Sugli interessi a tasso ultralegale.

L’art. 127 TUB fa obbligo alle banche di comportarsi in conformità ai generali principi di trasparenza, buona fede e correttezza in sede di esecuzione del contratto e, ancor prima, già nella fase precedente, in sede di trattative. Ciò posto, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che tale fondamentale dovere implichi lo svolgimento dei compiti, delle facoltà e degli adempimenti che costituiscono il contenuto del modello contrattuale adottato in modo leale, astenendosi da comportamento maliziosi o reticenti, fornendo alla controparte ogni dato rilevante conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza sia ai fini della stipulazione del contratto che in riferimento alla sua fase esecutiva, dovendo siffatta condotta conformarsi avendo riguardo alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario[1].

Banca d’Italia esercita i poteri di controllo, avendo riguardo alla “sana e prudente gestione dei soggetti vigilati”, come dispone espressamente l’art. 5 TUB; trattandosi di vigilanza che si giustifica in ragione della funzione degli istituti di credito, inerente alla tutela del risparmio (art. 47 Cost.). Ciò che occorre accertare, al fine di verificare la fondatezza dell’assunto della responsabilità per inadempimento contrattuale della banca convenuta, è se il conto corrente oggetto di causa sia stato o meno gestito in modo da integrare gli indici rivelatori dell’esercizio abusivo dei poteri e delle prerogative contrattuali, così come conformati dalla disciplina convenzionale e/o legale; ovvero se si configuri legittimo o in contrasto con il richiamato dovere di “sana e prudente gestione” dello stesso conto corrente e con il principio di correttezza e buona fede, declinato in riferimento al relativo rapporto negoziale.

Il conto corrente di corrispondenza è caratterizzato dall’esplicazione di un servizio di cassa, inerente a operazioni di pagamento o di riscossione di somme da effettuarsi, a qualsiasi titolo, per conto del cliente e la disponibilità della provvista sul conto può essere costituita con versamento di somme, con accrediti sul conto o anche in virtù dell’intervento della stessa banca, attraverso il rapporto collegato di apertura di credito, che rappresenta, nella complessità del meccanismo negoziale, una prestazione accessoria rispetto a quella principale, che è di per sé riconducibile allo schema del mandato[2], nonché consistente nell’attività di compensazione (impropria) periodica di poste attive e passive generale dalle varie operazioni.

Per la prestazione dei servizi forniti, la banca ha diritto evidentemente a vario titolo a corrispettivi (sub specie di rimborso spese, commissioni varie ed interessi, in riferimento al passivo del saldo del conto), che vengono contabilizzati sul conto medesimo, contribuendo alla formazione del saldo. La gestione della contabilità del conto (attraverso le annotazioni delle varie operazioni e la rendicontazione mediante la predisposizione degli estratti conto periodici) costituisce, pertanto, parte integrante della prestazione di pertinenza dell’istituto di credito ed è, più precisamente, qualificabile come attività demandata a quest’ultimo quale di mandato in rem propriam.

Al riguardo, va in primo luogo ribadito che, nel caso di specie, il rapporto di conto corrente attenzionato venne costituito, nel 1998, in difetto di stipulazione in forma scritta (circostanza incontroversa, non essendo stato allegato né dall’una né dall’altra parte che il contratto de quo fosse stato concluso per iscritto e che taluna delle stesse non avesse la disponibilità di copia, in ipotesi, per averlo smarrito o per non averne ricevuto la consegna).

Un primo profilo di nullità della gestione contabile del conto è stato individuato nell’applicazione di interessi a tasso ultralegale, in difetto della relativa pattuizione in forma scritta, che ha contribuito alla formazione dell’indebito, ex art. 2033 c.c., oggetto della già intervenuta statuizione condannatoria in funzione di ripetizione in favore della correntista, essendo stato il saldo rideterminato in base al tasso legale, in conformità al disposto di cui all’art. 1284, comma 3, c.c. Trattasi di norma imperativa, per consolidata giurisprudenza, in quanto tale cogente ed inderogabile attraverso l’autonomia privata, essendo siffatto requisito formale soddisfatto “solo quando il tasso di interesse è desumibile dal contratto, senza alcun regime di incertezza o di discrezionalità” in capo all’istituto di credito[3].

A norma del combinato disposto di cui agli artt. 117, commi 1, 3 e 4, TUB, i contratti bancari “sono redatti per iscritto” – a pena di nullità[4] – dovendo il testo contrattuale contenere “il tasso di interesse ed ogni altro prezzo o condizione praticati”; già anteriormente all’entrata in vigore del TUB, la Legge sulla trasparenza bancaria[5] prescriveva la stipulazione in forma scritta dei contratti bancari.

Pare innegabile che la banca, in conformità allo standard di diligenza qualificata, ex art. 1176, comma 2, c.c., che connota la sua veste di operatore professionale nel mercato del credito e del risparmio, non potesse ignorare il regime formale ad substantiam che la stipulazione del contratto di conto corrente avrebbe dovuto rispettare, a pena di nullità; non può che derivarne la colposa consapevolezza in capo alla banca circa la nullità (e la conseguente inefficacia) dell’addebito alla correntista di interessi a tasso ultralegale illegittimo; comportamento che non può non impingere in violazione dell’obbligo di buona fede, in difetto di informazione di sorta alla stessa correntista, nel corso della pluriennale durata del rapporto, circa l’invalidità delle relative annotazioni e le conseguenze che ne sarebbero derivate ed essendosi siffatta condotta sostanziata nell’unilaterale e (giova ribadire) consapevole pretesa, in concreto realizzata attraverso la predisposizione degli estratti conto periodici, di interessi a tasso illegittimo, con conseguente “sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale[6] e con corrispondente conseguimento di sproporzionato “beneficio” in capo alla medesima banca, per effetto dell’esercizio delle prerogative contrattuali. Attraverso tale esercizio la banca ha realizzato un risultato diverso e ulteriore rispetto a quello per il quale il potere di annotazione delle varie annotazioni in conto è stato attribuito allo stesso istituto di credito[7].

Non può certo dirsi, che l’applicazione di interessi debitori a tasso (consapevolmente) eccedente quello dovuto (corrispondente al saggio legale, in difetto di stipulazione in forma scritta del contratto di conto corrente) costituisca un diritto “validamente riconosciuto dal contratto” alla convenuta[8].

 

Sulla commissione di massimo scoperto.

In virtù del disposto di cui all’art. 117, commi 1 e 4, TUB, analoghe considerazioni valgono con riguardo agli addebiti registrati in conto a titolo di commissioni di massimo scoperto, non pattuite in forma scritta (in particolare, in riferimento alle modalità di determinazione delle stesse ed alla relativa percentuale), proprio per non essere stato il contratto di conto corrente concluso per iscritto; ciò a prescindere dalla funzione assunta da dette commissioni, così come applicate dalla banca.

Le commissioni di massimo scoperto possono definirsi, in conformità alla definizione tradizionale riveniente dalle Istruzioni della Banca d’Italia precedenti al 2009, come “il corrispettivo pagato dal cliente per compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto”, trattandosi di “compenso — che di norma viene applicato allorché il saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni — … calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento» (ovvero sulla punta massima di utilizzo del credito nel trimestre)”. Trattasi, in sostanza, del corrispettivo («remunerazione») per il mantenimento dell’apertura di credito, indipendentemente dalla sua utilizzazione. Al riguardo, nell’unica pronuncia con la quale la Corte di Cassazione ha affrontato ex professo la questione della sua natura funzionale, si è evidenziato che “o tale commissione è un accessorio che si aggiunge agli interessi passivi – come potrebbe inferirsi anche dall’esser conteggiata, nella prassi bancaria, in una misura percentuale dell’esposizione debitoria massima raggiunta, e quindi sulle somme effettivamente utilizzate, nel periodo considerato, che solitamente è trimestrale, e dalla pattuizione della sua capitalizzazione trimestrale, come per gli interessi passivi …. – o ha una funzione remunerativa dell’obbligo della banca di tenere a disposizione dell’accreditato una determina somma per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dal suo utilizzo …, come sembra preferibile ritenere anche alla luce della circolare della Banca d’Italia del primo ottobre 1996 e delle successive rilevazioni del c.d. tasso di soglia, in cui è stato puntualizzato che la commissione di massimo scoperto non deve esser computata ai fini della rilevazione dell’interesse globale di cui alla legge 7 marzo 1996 n. 108, ed allora dovrebbe esser conteggiata alla chiusura definitiva del conto”.

La giurisprudenza ha riconosciuto la legittimità delle relative pattuizioni solo se costituenti corrispettivo per l’utilizzo, da parte del cliente, di importi superiori al credito a sua disposizione (c.d. affidamento), mentre ha affermato l’illegittimità della clausola contrattuale che ponga a carico del cliente il pagamento di una somma, a tale titolo, da calcolarsi anche su importi entro il limite del fido, in quanto priva di causa[9]. Ne deriva che nell’ipotesi in cui il conto corrente sia assistito da apertura di credito la commissione di massimo scoperto deve essere calcolato esclusivamente con riferimento agli importi eccedenti i limiti dell’affidamento concesso. Le c.m.s. consistono, in definitiva, in base alle due accezioni più diffuse, come nel corrispettivo per la semplice messa a disposizione da parte della banca di una somma, a prescindere dal suo concreto utilizzo (in tal senso denominate anche commissioni di affidamento), oppure come la remunerazione per il rischio cui la banca è sottoposta nel concedere al correntista affidato l’utilizzo di una determinata somma, a volta oltre il limite dello stesso affidamento (nozione, quest’ultima, che sembra essersi imposta più di recente).

Da tale diversità di natura e giustificazione causale è derivata anche una diversità di metodologie applicative, dal momento che, in coerenza con il primo profilo delle commissioni in esame, queste vengono calcolate sull’intero ammontare della somma affidata, mentre nella seconda ipotesi il calcolo avviene soltanto sul massimo saldo “dare” registrato sul conto in un determinato periodo (individuato secondo le più svariate soluzioni, a volte prendendosi in considerazione il trimestre, altre volte anche periodi ben più brevi, sino addirittura allo scoperto giornaliero).

Ancora, manca l’univocità in ordine alla periodicità di calcolo delle c.m.s. che, in alcuni casi, vengono computate dalla banca addirittura come un accessorio degli interessi, seguendo la medesima periodicità. Tale varietà funzionale trova conferma nel recente intervento legislativo (ovviamente inapplicabile ratione temporis alla fattispecie in esame), di cui alla l. 28 gennaio 2009, n. 2 (di conversione, con modifiche del D.L. 29 novembre 2008, n. 185), non avendo, neanche in tale occasione, il legislatore saputo fornire una definizione della c.m.s., limitandosi a regolamentarne alcuni aspetti e anzi prendendo atto della varietà applicativa dell’istituto.

Peraltro, proprio in considerazione della non univoca funzione concreta che le commissioni di massimo scoperto possono assumere nella prassi bancaria, non essendo la relativa pattuizione riconducibile a un’unica fattispecie giuridica, l’onere di determinatezza della relativa clausola negoziale, ex art. 1346 c.c., deve essere valutato con particolare rigore, dovendosi esigere, se non una sua espressa definizione testuale, per lo meno la specifica indicazione di tutti gli elementi che concorrono a determinarla (percentuale, base di calcolo, criteri e periodicità di addebito), in assenza dei quali non può nemmeno ravvisarsi un vero e proprio accordo delle parti su tale pattuizione accessoria, non potendosi ritenere che il cliente abbia potuto prestare un consenso consapevole, rendendosi conto dell’effettivo contenuto giuridico della clausola e, soprattutto, del suo “peso” economico; in mancanza, l’addebito delle commissioni di massimo scoperto si traduce in un’inammissibile imposizione unilaterale della banca che non trova legittimazione in una valida pattuizione consensuale.

Nel caso di specie, non assume concreto rilievo accertare la funzione assunta dalle commissioni di massimo scoperto applicate dalla banca convenuta nella gestione del conto corrente oggetto di giudizio (stante la dirimente omessa stipulazione in forma scritta del contratto); con la conseguente nullità ed inefficacia degli addebiti a tale titolo contabilmente registrati nel corso dell’esecuzione del rapporto contrattuale, per le ragioni già in precedenza esposte.

 

Sulla capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori.

Per quanto concerne l’illegittima capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori e il conseguente addebito di interessi anatocistici, pare opportuno riportare il perspicuo supporto motivazionale recepito dalle Sezioni Unite: “In sede di esegesi dell’art. 1283 c.c., la giurisprudenza della primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del ventennio precedente, ha enunciato il principio – reiteratamente, poi, confermato da successive sentenze – per cui gli “usi contrari”, idonei, ex art. 1283 c.c. a de0rogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli “usi normativi” in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed incorre quindi nel divieto di cui al citato art. 1283 c.c.. La clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi configura violazione del divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 c.c., non rinvenendosi l’esistenza di usi normativi che soli potrebbero derogare al divieto imposto dalla suddetta norma, neppure nei periodi anteriori al mutamento giurisprudenziale in proposito avvenuto nel 1999, non essendo idonea la contraria interpretazione giurisprudenziale seguita fino ad allora a conferire normatività a una prassi negoziale che si è dimostrata poi essere contra legem. L’uso normativo anatocistico trimestrale, inesistente prima dell’entrata in vigore del codice del 1942, non si è potuto formare successivamente in costanza del divieto anatocistico dell’art. 1283 c.c. e, pertanto, sono nulle le clausole anatocistiche dei contratti bancari. La mancata dichiarazione di inesistenza dell’uso anatocistico trimestrale e delle clausole anatocistiche bancarie da parte della giurisprudenza di merito e di alcune pronunce del giudice di legittimità, non comporta creazione dell’uso normativo anatocistico, considerata l’estraneità del precedente giurisprudenziale a dare fondamento ai caratteri dell’uso consistenti nella ripetizione del comportamento nell’ opinio juris ac necessitatis. L’adesione anche di massa e ripetuta nel tempo a condizioni generali di contratto unilateralmente predisposte, è inidonea alla creazione dell’uso normativo, considerato che la scelta dell’aderente non è contraddistinta dai caratteri di libertà e di alternativa propri dell’opinio juris ac necessitatis”[10].

In virtù del costante orientamento giurisprudenziale diffusosi a seguito del revirement della Corte di Cassazione[11] e della sentenza della Corte Costituzionale n. 425/2000[12], nei contratti di conto corrente bancario, ex art. 120 TUB, deve considerarsi legittima la capitalizzazione degli interessi alla sola condizione che la periodicità della capitalizzazione sia reciproca e che risulti da espressa pattuizione scritta[13]. Ne deriva che, in conformità a consolidata giurisprudenza, le clausole anatocistiche contenute nei contratti di conto corrente implicanti la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi siano affette da nullità, rilevabile anche d’ufficio, ex art. 1421 c.c., qualora inserite in contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della suddetta Delibera CICR (sì come accade per quello oggetto di giudizio, avendo avuto questo esecuzione fin dal 1998), in quanto fondate su un mero uso negoziale inidoneo a derogare al disposto imperativo di cui all’art. 1283 c.c.; per converso, devono ritenersi legittime qualora afferiscano a contratti conclusi successivamente alla suddetta data, purchè rispettose del principio di simmetrica periodicità e reciprocità, vale a dire a condizione che prevedano identica periodicità per la capitalizzazione degli interessi passivi e di quelli attivi[14].

 

Sulla differenza tra conto corrente ordinario e conto corrente bancario.

Il fatto che alla chiusura trimestrale dei conti segua la capitalizzazione trimestrale degli interessi non può rappresentare una sostanziale elusione del divieto di cui al richiamato art. 1283 c.c. Deve, inoltre, essere osservato, in proposito, che l’art. 1857 c.c. non preveda, tra le norme applicabili alle operazioni bancarie in conto corrente (di corrispondenza o bancario e non ordinario) gli artt. 1823, 1825 e 1831 c.c., ma fa riferimento ai soli artt. 1826, 1829 e 1832 c.c.[15]. L’espressa previsione normativa delle norme del conto corrente ordinario applicabili al conto corrente bancario e la mancata inclusione tra queste dell’art. 1831 c.c. escludono in radice la possibilità che tale ultima disposizione possa essere analogicamente o estensivamente applicata al conto corrente bancario.

Mentre nel conto corrente ordinario è necessario dar vita a una periodica chiusura del conto per rendere finalmente disponibile ed esigibile il saldo a favore del correntista ordinario, nel conto corrente bancario non vi è, invece, alcuna necessità di una chiusura periodica del conto, in quanto in qualsiasi momento, in base all’art. 1852 c.c., il cliente correntista ha la piena disponibilità del conto e delle somme a suo credito in esso annotate.

Ne consegue che, nel conto corrente bancario, la c.d. chiusura periodica (trimestrale, semestrale, annuale) del conto svolge solo ed unicamente la funzione di natura contabile, essendo destinata a conteggiare gli interessi e le spese, addebitandoli o accreditandoli sul conto, in guisa che gli interessi addebitati vengano ad accrescere il preesistente debito per capitale (per interessi già capitalizzati) e gli interessi accreditati costituiscano somme che rappresentano una nuova giacenza del conto, sulle quali decorrono interessi non certo per effetto dell’anatocismo, ma per l’elementare principio della maturazione degli interessi sulle giacenze attive del conto. In altri termini, nel contratto di conto corrente bancario, il rapporto di piena disponibilità da parte del cliente si svolge ininterrottamente prima e dopo la c.d. chiusura periodica del conto corrente bancario, e dunque indipendentemente dal fatto che la banca quale mandataria proceda periodicamente a fare il conto degli interessi maturati a debito o a credito e, pertanto, la cosiddetta chiusura periodica segna esclusivamente la contabilizzazione di interessi a debito o credito del cliente.

È da intendersi in questo senso l’esclusione del richiamo dell’art. 1831 c.c., nell’ambito della disciplina del conto corrente bancario: non vi è, infatti, in tale ultimo rapporto contrattuale alcuna effettiva e periodica chiusura del conto dalla quale scaturisca l’esigibilità di una somma, ma vi è solo il conteggio di interessi, che viene contabilizzato nel rendiconto che la banca, quale mandataria, deve fornire al cliente. Di qui l’impossibilità di applicare l’art. 1831 c.c. ai rapporti di conto corrente bancario, in quanto la chiusura cui fa riferimento tale disposizione realizza funzioni del tutto estranee al conto corrente bancario, considerato che nel contratto in questione il termine chiusura periodica del conto sta a significare soltanto il conteggio del corrispettivo (il quale, come è noto, è articolato nelle varie voci, oltre che di spese e competenze, anche di interessi per la liquidità messa a disposizione della banca mandataria), preteso periodicamente dalla banca per l’espletamento, appunto, della sua attività di mandataria.

È la stessa diversità strutturale e funzionale che caratterizza lo schema causale del conto corrente ordinario rispetto a quello del conto corrente bancario per corrispondenza[16] a determinare l’inapplicabilità dell’art. 1831 c.c. a quest’ultimo rapporto contrattuale: se, infatti, il saldo del conto corrente bancario è esigibile in ogni momento, non può aver senso far riferimento alla disposizione da ultima citata, che presuppone l’inesigibilità delle partite creditorie fino alla chiusura del conto.

In definitiva, essendo il conto corrente bancario un contratto di durata, in cui il rapporto non si rinnova a ogni chiusura di conto (risultando la c.d. chiusura periodica non già prodromica al saldo ed alla conclusione del contratto, bensì una mera operazione contabile rispondente ad una finalità riepilogativa), non è richiesta dal tipo negoziale (tanto da non essere prevista nelle norme che regolano i conti correnti bancari), proseguendo il rapporto contrattuale naturalmente dopo tale (periodica) chiusura fittizia, il considerare la risultanza (per quanto chiarito non si può, tecnicamente, parlare di saldo) della chiusura trimestrale come rimessa del periodo successivo è una mera finzione e comporta innegabile violazione del divieto di anatocismo, in quanto determina la produrre interessi sugli interessi maturati fino a quel momento, con conseguente elusione della disciplina legale imperativa (art. 1283 c.c.).

La Cassazione, anche a Sezioni Unite, ha espressamente rimarcato, sempre con riferimento alla nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori nei conti correnti, che siffatta nullità si estende a tutta la durata del rapporto, pertanto anche al periodo antecedente al 1999 (anno a cui risale il mutamento di indirizzo); ciò in virtù della considerazione per la quale “la funzione della giurisprudenza è meramente ricognitiva dell’esistenza e del contenuto della regola, non già creativa della stessa, e, conseguentemente, in presenza di una ricognizione anche reiterata nel tempo, rivelatasi poi inesatta nel ritenerne l’esistenza, la ricognizione correttiva ha efficacia retroattiva, poiché, diversamente, si determinerebbe la consolidazione “medio tempore” di una regola che avrebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenze che, erroneamente presupponendola, l’avrebbero creata[17]. In definitiva, la pratica della capitalizzazione trimestrale, in quanto integrante applicazione di un uso negoziale, è illegittima con riguardo all’intero corso del rapporto bancario. Invero, in una situazione di asimmetria negoziale non può nascere un uso normativo, che invece presuppone necessariamente la libera autodeterminazione dei soggetti che concorrono alla sua formazione. La nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale per contrasto con l’art. 1283 c.c. opera, quindi, ab initio, integrando un vizio genetico e non consente, perciò, quel meccanismo sostitutivo con applicazione della capitalizzazione annuale che neppure la delibera CICR ha stabilito in modo tassativo per i rapporti successivi al 30/06/2000, limitandosi a prevedere un principio di simmetria (cioè identica capitalizzazione periodica per gli interessi attivi e passivi) che si potrebbe astrattamente tradurre in una capitalizzazione passiva condotta su periodi diversi per ciascun rapporto, perché corrispondenti a quelli attivi; il che esclude in radice che si possa parlare di un periodo sostitutivo imperativo.

Il richiamo alla capitalizzazione degli interessi (contenuto nell’art. 8 della l. n. 154/1992 e nell’art. 116 TUB) nulla dice in ordine ai tempi della capitalizzazione e, quindi, tali articoli (su cui si fonda un generico obbligo informativo) non possono costituire il fondamento normativo per ritenere legittima la capitalizzazione trimestrale praticata. In tale contesto, va, altresì, rilevato che l’art. 162bis disp. att. c.c. ha carattere meramente transitorio, con espressa finalità di coordinamento, per le obbligazioni sorte anteriormente all’entrata in vigore del codice civile, tra l’art. 1232 del Codice del 1865 (che prevedeva, al comma 3, la possibilità di portare a capitale gli interessi scaduti purché «dovuti per un’annata intera») e l’art. 1283 del Codice vigente (che ha ridotto a sei mesi la decorrenza minima della debenza). Assolta siffatta funzione, la norma de qua non è suscettibile di utilizzazione ermeneutica ulteriore.

In definitiva, la clausola che sancisce la previsione e conseguente applicazione degli interessi composti oltre i limiti previsti dalla Legge determina nullità parziale del contratto di conto corrente (in particolare della clausola che la prevede, ex art. 1419 c.c.), per violazione di norma imperativa, segnatamente del citato art. 1283 c.c.; nullità rilevabile anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 1421 c.c.[18].

 

Sulle conseguenze della nullità.

La questione di maggior rilievo attiene alle conseguenze della nullità, specie in relazione ai rapporti (quale è quello per cui è giudizio) costituiti già anteriormente alla vigenza della disciplina introdotta dalla richiamata Delibera CICR 9 febbraio 2000.

Al riguardo, la tesi finalizzata a conseguire il riconoscimento di una capitalizzazione quantomeno annuale degli interessi bancari, non può trovare ingresso. Difatti, a fronte della nullità della clausola relativa alla capitalizzazione trimestrale, ex art. 1283 c.c., non v’è possibilità di applicazione, in alternativa, della capitalizzazione annuale, stante, per un verso, la mancanza di una previsione contrattuale in tal senso e l’assenza di una norma imperativa che ne imponga l’adozione, ex art. 1419, comma 2, c.c., in sostituzione della clausola nulla, e considerato, per altro verso, il disposto inderogabile di cui all’art. 1283 c.c., che riconosce l’anatocismo con esclusivo riferimento al periodo successivo alla domanda giudiziale.

Tale ricostruzione risulta aver trovato di recente espressa adesione da parte delle Sezioni Unite, che hanno avuto modo di affermare che, una volta dichiarata la nullità della summenzionata clausola di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche a un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), “gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna[19]. Con la citata pronuncia, il massimo consesso ha respinto la tesi giurisprudenziale della naturale capitalizzazione degli interessi sulla base dell’unità-anno, ma hanno anche dichiarato l’infondatezza di altro argomento difensivo fatto proprio dalle banche fondato sul dato testuale dell’art. 7 NUB. Queste ultime hanno, infatti, spesso sostenuto che, pur essendo nullo il comma 2, che fissa la capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori («I conti che risultino, anche saltuariamente, debitori vengono invece chiusi contabilmente, in via normale, trimestralmente»), non sarebbe, invece, nullo il primo comma, il quale prevedeva che i “I rapporti di dare ed avere vengono regolati, in via normale, a fine dicembre di ogni anno”, con conseguente persistenza della regola convenzionale della capitalizzazione annuale. Le Sezioni Unite hanno, per converso, in proposito affermato che la prima clausola si riferisce esclusivamente agli interessi creditori del correntista.

Giova, peraltro, ribadire che, nel caso in esame, il contratto di conto corrente, avente decorrenza dal 1998, difettando, per quanto chiarito, di forma scritta, non possa ritenersi contenere alcuna espressa clausola che preveda la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi; ciò che non avrebbe consentito di operare gli addebiti contabilizzati a tale titolo e che avrebbe dovuto comportare l’esigenza di espungerli nel corso del rapporto, in ragione, per l’appunto, della carenza di valida pattuizione di sorta che potesse costituirne giustificazione. Il rapporto contrattuale oggetto di giudizio, per quanto già chiarito, risulta costituito anteriormente alla novella dell’art. 120 TUB, che, nello stabilire il principio di simmetria e pari e reciproca periodicità dell’applicazione degli interessi sugli interessi maturati (purchè sia su quelli debitori che su quelli creditori), ha demandato al CICR la disciplina attuativa di tale principio.

Come noto, il CICR ha provveduto, con la Delibera del 9 febbraio 2000, a eseguire le direttive di cui all’art. 25, comma 2, del D.Lgs. n. 342/1999, stabilendo, in particolare: che in tutti i rapporti dovesse essere indicata la periodicità della capitalizzazione degli interessi; che le clausole di capitalizzazione degli interessi dovessero essere approvate specificamente per iscritto, ai sensi dell’art. 1341 c.c.; che nei rapporti di conto corrente fosse prevista la stessa periodicità nella capitalizzazione degli interessi creditori e debitori. Ne consegue che, nel rispetto di tali previsioni contrattuali, dal 01.07.2001 (data indicata nella stessa delibera del CICR) la clausola anatocistica deve ritenersi valida.

Con la medesima Delibera è stata peraltro regolata in modo espresso (con disciplina transitoria) l’ipotesi dei contratti di conto corrente in corso contenenti l’illegittima clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, avendo al riguardo l’art. 7 stabilito la possibilità di adeguamento del contratto al principio di simmetria entro il 30.06.2000, procedendo alla pubblicazione sulla G.U. delle modifiche delle condizioni contrattuali necessarie per adeguarsi alla normativa sopravvenuta ed informando per iscritto il cliente circa l’assolvimento di tale formalità[20].

Nel caso in questione, non risulta allegato, né, tantomeno, provato, che l’Istituto di credito abbia provveduto a eseguire le formalità indicate nel succitato art. 7, né che abbia, nel corso del rapporto, invitato la cliente a rinegoziare validamente le clausole contrattuali, adeguando la situazione di fatto a quella di diritto.

Ciò considerato, pare innegabile che l’avere la banca convenuta continuato ad applicare la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi anche dopo il revirement della Corte di Cassazione del 1999 che ne ha sancito l’illegittimità, omettendo, peraltro, di adeguare le condizioni contrattuali originarie (di per sé invalide, in quanto non pattuite in forma scritta) al principio di simmetria e reciprocità della capitalizzazione degli interessi debitori e creditori, attraverso gli adempimenti e le formalità appena menzionati, ha integrato ulteriore violazione del dovere di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di conto corrente, avendo concorso a determinare quel saldo passivo a carico della correntista arbitrariamente contabilizzato nel corso del tempo, di conseguenza, e l’acclarato diritto di quest’ultima alla ripetizione dell’indebito oggettivo.

Pare innegabile che, anche sotto tale profilo, la gestione contabile del conto corrente posta in essere dalla banca (nella sua veste di operatore professionale, tenuto alla diligenza qualificata, ex art. 1176, comma 2, c.c., esigibile nei suoi confronti) non può non essere stata consapevole, almeno a far tempo dalle pronunce della Corte di Cassazione del 1999 (con le quali è stato inaugurato l’indirizzo giurisprudenziale definitivamente con la sentenza delle Sezioni Unite del 2004), dell’illegittimità dell’applicazione di interessi anatocistici in dipendenza della ridetta capitalizzazione trimestrale, né dell’esigenza di adeguare la tenuta del conto a quanto prescritto dall’art. 7 della Delibera CICR del 09.02.2000, al fine proseguire legittimamente (sempre che tale adeguamento non risultasse peggiorativo per la correntista) nell’effettuare la stessa capitalizzazione.

Non pare revocabile in dubbio che una condotta di tal genere, contrastante con il dovere di “sana e prudente gestione” (impostole ex art. 5 TUB) e con il fondamentale canone di correttezza e buona fede, ha contribuito ad aggravare l’apparente esposizione debitoria della cliente, provocando uno sproporzionato e ingiustificato vantaggio per la banca ed un corrispondente ingiusto sacrificio per la correntista, in rapporto alla carenza di liquidità venutasi a determinare per quest’ultima ed ai conseguenti pregiudizi patrimoniali verificatisi, quali riscontrati all’esito dell’accertamento compiuto dal CTU. Ne consegue la risarcibilità di tali danni, per quanto di ragione, vale a dire nei limiti di quanto provato, anche in riferimento al nesso di causalità rispetto all’operato della banca.

Il consulente ha accertato che la situazione di difficoltà finanziaria dovuta alla carenza di liquidità determinata dall’indebito venutosi a formare in dipendenza della gestione contabile del conto corrente a opera della banca convenuta, ha assunto rilevanza causale rispetto ai maggiori costi sostenuti dalla medesima società. Il CTU ha, inoltre, verificato la sussistenza del nesso causale tra l’evidenziata carenza di liquidità provocata dall’indebito maturato per effetto della gestione contabile del conto corrente e i maggiori oneri sopportati dalla ex correntista in relazione all’esposizione debitoria nei confronti dei sui fornitori, avendo subito azioni di recupero da parte di questi ultimi.

Per quanto concerne il danno consistente nella “svendita” delle azioni e dei fondi comuni di investimento al fine di procurarsi la provvista occorrente per sovvenire alla precaria situazione finanziaria della società, il consulente ha escluso che il mero raffronto tra il prezzo di acquisto e quello di vendita di tali titoli dimostri di per sé il pregiudizio prospettato, in virtù della condivisibile considerazione per la quale “Le azioni sono soggette a oscillazioni di mercato, possono variare nel tempo in aumento o in diminuzione, per cui il solo fatto che al momento della vendita sono state valorizzate al valore di mercato in quel momento vigente, non significa di per sé che nel caso in cui le azioni non fossero state vendute [l’attore] avrebbe conseguito un valore maggiore di quello percepito”, argomentazione che pare in effetti giustificata dalla carenza di documentazione inerente alle oscillazioni degli stessi fondi ed azioni nel corso del tempo, non potendosi quindi escludere che la vendita in un momento successivo sarebbe avvenuta ad un prezzo ancora inferiore rispetto a quello per il quale vennero in effetti ceduti dal predetto attore. Alla luce della documentazione prodotta, va inoltre condiviso il rilievo del medesimo C.T.U. circa la carenza di prova in ordine al nesso causale tra la carenza di liquidità in capo alla società e la decisione di porre in vendita gli anzidetti valori mobiliari, tenuto anche conto che essi fossero di proprietà del socio e non già della società correntista.

La domanda attorea deve, da ultimo, essere disattesa con precipuo riferimento ai dedotti danni non patrimoniali da lesione della reputazione personale e commerciale, per difetto di prova sul punto; prova che non può ritenersi evincibile in re ipsa dall’inadempimento contrattuale di cui si è resa responsabile la convenuta.

 

 

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[1] Cfr., ex plurimis, Cass. n. 21163/2013; Cass. n. 5762/2016; Cass. n. 23873/2013; Cass. n. 11295/2011.

[2] Cfr. Cass. n. 25943/2011; Cass. n. 2226/2017; Cass. n. 815/1982.

[3] Cfr. Cass. n. 5609/2017; Cass. n. 2072/2013; Cass. n. 12276/2010; Cass. n. 2317/2017.

[4] Cfr., ex plurimis, Cass. n. 22385/2019; Cass. n. 16070/2018; Cass. n. 16362/2018.

[5] Il riferimento è alla legge n. 154/1992.

[6] Cfr. Cass. n. 26541/2021.

[7] Cfr. Cass. n. 15885/2018.

[8] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., n. 24675/2017.

[9] Cfr. Cass. n. 11772/2002.

[10] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 04.11.2004, n. 21095.

[11] Il riferimento è alle sentenze nn. 3096/1999 e 2374/1999.

[12] Con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, comma 3 del D.Lgs. n. 385/1993, nella parte in cui stabiliva che “le clausole riguardanti la produzione di interessi sugli interessi maturati”, contenute nei contratti conclusi anteriormente alla data di entrata in vigore della Delibera C.IC.R. fossero “valide ed efficaci fino a tale data”)

[13] Cfr., in particolare, art. 2 Delibera C.I.C.R. citata); pattuizione che, inoltre, deve essere specificamente approvata per iscritto (art. 6 della stessa Delibera CICR.

[14] Cfr., ex plurimis, Cass. Civ., Sez. Un., n. 21095/2004; Cass. n. 25016/2007; Cass. n. 21141/2007; Cass. n. 11466/2008; Cass. n. 9695/2011; Cass. n. 6518/2011; Cass. n. 23973/2010.

[15] Cfr. Cass. n. 870/2006; Cass. n. 6187/2005.

[16] Atteso che il primo prevede l’inesigibilità delle prestazioni, ex art. 1823 c.c., mentre il secondo comporta la continua disponibilità e l’esigibilità a vista del saldo, ex art. 1852 c.c.

[17] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., n. 21095/2004; Cass. n. 11466/2008.

[18] Cfr. Cass. n. 21080/2005; Cass. n. 19882/2005; Cass. n. 10599/2005; Cass. n. 7539/2005.

[19] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., n. 24418/2010; Cass. Civ., Sez. I, n. 3649/2012.

[20] Più precisamente, il tenore del precitato art. 7 è il seguente: “1). Le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente delibera devono essere adeguate alle disposizioni in questa contenute entro il 30 giugno 2000 e i relativi effetti si producono a decorrere dal successivo 1 luglio. 2). Qualora le nuove condizioni contrattuali non comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, le banche e gli intermediari finanziari, entro il medesimo termine del 30 giugno 2000, possono provvedere all’adeguamento, in via generale, mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Di tali nuove condizioni deve essere fornita opportuna notizia per iscritto alla clientela alla prima occasione utile, e, comunque, entro il 30 dicembre 2000. 3). Nel caso in cui le nuove condizioni contrattuali comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, esse devono essere approvate dalla clientela”.

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